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    JFK cinquantatré anni dopo

    Tre colpi, o forse no. Un killer, o due. Il delitto Kennedy rimane un enigma

    Di Giovanna Carnevale
    Pubblicato il 22 Nov. 2013 alle 10:28 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 09:04

    Una volta compiuto, un pezzo di storia diventa ciò che se ne scrive.

    Tre colpi di fucile, due centrano il bersaglio, uno è mortale. John Fitzgerald Kennedy è assassinato pochi secondi dopo le 12.30 del 22 novembre 1963, mentre attraversa in limousine la città di Dallas, Texas.

    Gli spari provengono tutti da una finestra del sesto piano del Texas School Book Depository. Lee Harvey Oswald è seduto su una pila di cartoni posizionata di fronte a quella finestra. Ha in mano un fucile del 1940, calibro 6.5. Lui è l’unico ideatore e organizzatore dell’assassinio.

    L’omicidio di J.F. Kennedy è un pezzo di storia scritto a quattordici mani, quelle degli uomini selezionati dal neo presidente Lyndon B. Johnson per comporre la commissione Warren. Sono due senatori, quattro deputati della Camera dei rappresentanti, tra cui un ex direttore della Cia, ed Earl Warren, presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti. Chi conduce concretamente le indagini, però, è uno staff di 14 assistenti consiglieri e 12 avvocati guidati dal procuratore generale J. Lee Rankin. A seguire, una lunga serie di personale amministrativo, avvocati, funzionari e agenti del Texas e del governo federale, che collabora con la commissione Warren.

    Una storia si può ricostruire, anche negli istanti. Questa dura minimo quattro, massimo sette secondi. Le tre cartucce vuote, trovate vicino la finestra del sesto piano del Texas School Book Depository, indicano che Lee H. Oswald ha sparato tre colpi. Solo due, però, hanno raggiunto il presidente Kennedy, da dietro e dall’alto. Uno,quello mortale, è entrato nella parte posteriore del cranio e uscito dal lato destro della testa. L’altro ha colpito il collo, lesionato la parte superiore del polmone destro e la trachea. Questo stesso colpo ha ferito anche il governatore del Texas John B. Connally, seduto davanti a Kennedy nella limousine. La pallottola uscita dal corpo del presidente si è inserita nel torace di Connally, ha attraversato il polso destro di quest’ultimo e si è infine bloccata nella sua coscia sinistra. E’ stata ritrovata sulla barella del governatore, quella utilizzata per condurlo al Parkland Memorial Hospital di Dallas poco dopo l’incidente. Il cervello di Kennedy, invece, non è mai stato ritrovato. È scomparso dopo l’autopsia condotta dai medici del Bethesda Naval Hospital, nel Maryland, nella notte del 22 novembre.

    Dieci mesi di indagini, 552 testimoni ascoltati, 888 pagine di rapporto, 26 volumi di udienze. Un totale di circa 363 metri cubi di documentazione. Il rapporto Warren viene presentato a Johnson il 24 settembre 1964. C’è la ricostruzione dell’assassinio di Kennedy e dell’agente della polizia di Dallas J. D. Tippit, avvenuto 45 minuti dopo. C’è anche la ricostruzione della morte di Lee H. Oswald, autore di entrambi i delitti, assassinato a sua volta da Jack Ruby due giorni dopo.

    La vita dei due killer è ripercorsa fin dall’infanzia. Di rilevante c’è che Lee Oswald è un simpatizzante dell’Unione sovietica con problemi relazionali. Jack Ruby, l’assassino dell’assassino, è invece un uomo d’affari, vicino a diverse figure della malavita. La morte del suo presidente lo fa cadere in depressione.

    Il resto del rapporto è dedicato agli studi sull’arma utilizzata e a quelli sui frammenti di pallottola ritrovati, ai referti dei medici di entrambi gli ospedali dove è stato portato Kennedy, a tutte le ipotesi avanzate e poi smentite.

    Nelle conclusioni la frase ricorrente è: “there is no evidence”. Non ci sono prove.

    Non ci sono prove che Lee H. Oswald facesse parte di una cospirazione, nazionale o estera, per assassinare J.F. Kennedy. Nessun collegamento con persone o gruppi politici, nessun incoraggiamento da parte di governi esteri, nessuna traccia che possa far sospettare che Oswald svolgesse un lavoro per conto dell’Fbi, della Cia o di ogni altra agenzia governativa.

    Non ci sono prove che Oswald conoscesse Jack Ruby, né che quest’ultimo abbia agito con altre persone o con la criminalità organizzata per programmare l’omicidio del 24 novembre. “Durante tutte le sue investigazioni, la Commissione non ha trovato prove di cospirazione, sovversione o slealtà al governo degli Stati Uniti da parte di nessun funzionario locale, statale o federale,” recita il rapporto.

    In realtà non ci sono prove neanche che i due frammenti di pallottola ritrovati nella limousine del presidente appartenessero alla stessa pallottola, invece che a due diverse. Ciò che è certo, è che erano “simili nella composizione metallica” tra di loro e simili alla pallottola da cui si è dedotto che provenissero.

    Il rapporto della commissione Warren sarebbe stato l’ultimo lavoro d’indagine sull’assassinio di Kennedy, se gli americani non fossero diventati sempre più scettici riguardo alla teoria della “pallottola magica”, che da sola provoca sette ferite tra quelle del presidente Kennedy e del governatore Connally. L’esplosione nel 1972 dello scandalo Watergate aveva contribuito non poco a far dubitare della trasparenza del governo statunitense.

    Viene allora istituita una seconda commissione nella seconda metà degli anni Settanta, l’House Select Committee on Assassinations, che tenta di fare luce sul delitto Kennedy e su quello di Martin Luther King. Anche in questo caso le prove a favore di un’ipotesi complottistica scarseggiano, ma l’Hsca ammette che con “alta probabilità” a sparare al presidente degli Stati Uniti siano stati due uomini. Oltre a quelli di Lee Oswald, un quarto colpo proveniva da una collinetta erbosa in Dealey Plaza. C’è stato un secondo potenziale assassino, dunque; ma ha sbagliato mira ed è sfuggito agli investigatori dell’Hsca, che non sono più riusciti a risalire alla sua identità.

    Dopo la morte di J.F. Kennedy sono stati scritti circa 40mila libri su di lui. I critici hanno continuato a contrastare i risultati del rapporto Warren. Oliver Stone ha avuto una nuova ondata di successo con il film del 1991 “JFK: un caso ancora aperto”. Alcuni aspettano il 2017 per avere accesso a quella piccola parte di documenti sull’assassinio che il JFK Records Act del 1992 tiene ancora segreti. Molti altri, accettati o no i risultati delle due commissioni, hanno smesso di pensarci.

    Ad accomunarli tutti, forse, è solo il senso di impotenza dell’uomo di fronte alla storia. Quella realmente accaduta, che non si è vissuta. E quella ricostruita e poi scritta, che inevitabilmente si sostituisce alla prima.

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