Figli e figliastri. È questo, probabilmente, il modo più corretto di riassumere il modo in cui le piattaforme digitali hanno applicato le loro policy sulla rimozione dei contenuti nel corso degli anni. Scrupolose e zelanti nell’assecondare le richieste di alcuni Governi, impreparate e negligenti nell’ascoltare i gridi di allarme provenienti da minoranze, gruppi sociali e religiosi vittime di repressioni, Stati considerati meno influenti nello scacchiere internazionale.
E così, social come Facebook hanno agevolato (lo ha attestato persino un report dell’Onu) le persecuzioni nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya in Birmania, consentendo la circolazione di post denigratori che spargevano odio nei loro confronti. La stessa “pigrizia” è stata manifestata dai social della galassia Meta in molte altre circostanze, dagli scontri etnici in Nigeria alla guerra civile in Etiopia. E come vi abbiamo spiegato qui su TPI, di recente persino la propaganda russa ha ripreso a circolare impunemente in rete (stavolta la responsabilità è soprattutto di Twitter e YouTube), mettendo in serio pericolo i cittadini ucraini.
E tuttavia, ci sono casi in cui la prontezza delle Big Tech nell’individuare e rimuovere contenuti d’odio è talmente impressionante da divenire sospetta. In Israele, dall’inizio del 2022, sono cresciute dell’800 per cento le richieste di rimozione di post da parte della Cyber Unit del Governo, l’ente che si occupa del contrasto ai crimini in rete. E come riporta la stessa Cyber Unit, nell’87 per cento dei casi la richiesta è stata accolta favorevolmente dalle piattaforme digitali. Questa sollecitudine, evidentemente, non è bastata al Parlamento israeliano, che nel dicembre del 2021 ha votato il Facebook Bill, una legge che obbliga i social media a cancellare contenuti identificati come pericolosi per la sicurezza personale, pubblica o nazionale. Da una semplice richiesta rivolta a Facebook, Instagram, Tik Tok e gli altri social da parte delle autorità pubbliche, se la legge venisse approvata in via definitiva si passerebbe quindi a un sostanziale obbligo di rimozione. I veri destinatari di questa misura sembrano essere i palestinesi, a cui potrebbe essere impedito di esprimere il proprio dissenso nei confronti delle politiche di Israele per mezzo di una vera e propria censura di Stato.
Il Facebook Bill si configura come una legge estremamente restrittiva in tema di libertà di espressione. Per prima cosa, i tribunali israeliani potranno chiedere la rimozione di post non solo dai social media, ma più in generale da qualsiasi sito internet. Anche i provider di servizi Internet vengono chiamati in causa, poiché potrebbe essere chiesto loro di bloccare l’accesso in Israele a contenuti che i siti web non accettano di rimuovere. In secondo luogo, la definizione di “sicurezza pubblica e nazionale” a cui fa riferimento la norma è estremamente vaga, lasciando così spazio a una pericolosa libertà interpretativa per chi effettuerà le segnalazioni. Le proteste delle associazioni per i diritti dei palestinesi non si sono fatte attendere. Tra le altre, la Palestinian Digital Rights Coalition (Pdrc) e la Palestinian Human Rights Organizations Council (Phroc), organizzazioni che si occupano di diritti umani e digitali del popolo palestinese, hanno affermato che la legge sarà utilizzata per mettere a tacere attivisti e giornalisti che documentano violazioni dei diritti umani da parte di Israele.
Ma pesanti critiche sono arrivate anche da politici, intellettuali e attivisti israeliani. Tehila Schwartz-Altschuler e Assaf Wiener, due ricercatori dell’Israel Democracy Institute (centro di ricerca dedito al rafforzamento della democrazia israeliana), hanno scritto una lettera alla commissione ministeriale per gli affari legislativi chiedendo di modificare il disegno di legge, considerato nella sua forma attuale «un’apertura sostanziale e procedurale alla censura governativa».
In un duro editoriale, il quotidiano israeliano Haaretz si è opposto al Facebook Bill, considerato eccessivamente restrittivo e pericoloso per la libertà di espressione. «Questa norma concede alle autorità strumenti senza precedenti e del tutto sproporzionati per imporre la censura governativa – si legge nell’editoriale – Per limitare i danni sarebbe necessario modificarla in modo significativo, sia in relazione ai siti a cui si applica sia riguardo alle tipologie di reato che copre». Persino l’ex premier e leader del Likud Benjamin Netanyahu ha parlato di una legge che rappresenta un «pericolo per la democrazia», accusando il ministro della Giustizia Gideon Sa’ar, principale artefice del provvedimento, di voler applicare una censura sui social media simile a quella di Paesi come l’Iran. Per tutta risposta, Sa’ar ha accusato Netanyahu di ipocrisia, poiché norme simili, finalizzate a limitare la libertà di espressione online (anche in chiave anti-palestinese) erano state proposte già nel 2016 e nel 2017, quando la carica di primo ministro era ricoperta proprio dal leader del Likud.
Sono proprio i precedenti a lasciare tutt’altro che tranquille le organizzazioni per i diritti dei palestinesi. Già in passato, infatti, il governo israeliano ha collaborato con Facebook per rendere più stringenti le norme sulla rimozione dei contenuti online. Ciò ha portato, in diversi casi, a significative violazioni della libertà di espressione di attivisti e giornalisti palestinesi. Nel 2016 il governo israeliano denunciò una presunta ondata di violenza da parte dei palestinesi che sarebbe stata alimentata dai social media. Di lì a poco venne stretto un accordo tra lo Stato di Israele e Facebook, finalizzato a creare team di lavoro che monitorassero e rimuovessero con maggiore prontezza i presunti contenuti incendiari. In seguito a tale accordo, numerosi account di giornalisti di testate palestinesi furono bloccati dal social di Mark Zuckerberg. Tra questi figuravano reporter di Shehab News Agency e Quds News Network, due agenzie che si occupavano di documentare quanto avveniva nei territori occupati in Cisgiordania. Il caso più eclatante si verificò però nel maggio del 2021, durante il conflitto tra Israele e Palestina nella Striscia di Gaza. In quell’occasione Facebook finì nell’occhio del ciclone a causa della rimozione (avvenuta senza alcuna spiegazione) di centinaia di post pro-Palestina. Tra i vari contenuti cancellati c’erano una serie di post su Instagram riguardanti l’uccisione, durante i bombardamenti israeliani, di Saeed Odeh, un ragazzo palestinese di 16 anni. Diverse organizzazioni per i diritti umani, in quel caso, chiesero a Facebook di chiarire i propri rapporti con il Governo israeliano, ma l’istanza cadde sostanzialmente nel vuoto.
Passato un anno, ora potrebbe essere lo stesso Governo israeliano a mettere la propria firma su una politica censoria che i social di Mark Zuckerberg, però, non sembrano aver mai davvero provato ad ostacolare.