In una campagna elettorale in cui i nostri politici corrono a esprimersi su qualsiasi argomento pur di catturare visibilità, nessun candidato – almeno tra i più conosciuti – ha ritenuto doveroso spendere una parola sul fatto che l’esercito di Israele ha (molto parzialmente) ammesso di aver ucciso la giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, colpevole solo di essersi trovata nel posto giusto al momento sbagliato. E anche sui maggiori quotidiani italiani la notizia è stata relegata nelle pagine interne o, peggio ancora, silenziata del tutto. Abu Akleh, reporter di Al Jazeera, aveva 51 anni e lo scorso 11 maggio è stata colpita a morte da un proiettile mentre – con indosso un giubbotto protettivo con la scritta “Press” – documentava un’operazione delle forze armate israeliane nella città palestinese di Jenin.
Volto familiare ai telespettatori arabi per aver raccontato per lungo tempo l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, la donna aveva anche la cittadinanza americana, il ché non ha potuto evitare alla Casa Bianca di pretendere un’indagine sull’accaduto. Ebbene, dopo quattro mesi di istruttoria, l’esercito israeliano ha stabilito che c’è una «elevata probabilità» che la reporter sia stata colpita dai militari dello Stato ebraico (stessa conclusione a cui era giunta, sebbene con più certezza, una dettagliata inchiesta del New York Times).
Ma gli israeliani precisano che ciò sarebbe avvenuto accidentalmente e aggiungono che resta «rilevante» la possibilità che Abu Akleh «sia stata colpita da pallottole sparate dai palestinesi armati» (eppure secondo il Nyt non c’erano palestinesi armati in zona). Per l’esercito «non c’è alcun sospetto che sia avvenuto un atto criminale» e quindi non è necessario avviare un’indagine penale. Cosicché, alla fine, per l’omicidio della giornalista nessuno pagherà. Come già osservato su TPI da Andrea Lanzetta, Abu Akleh come il suo popolo rischia così di essere «vittima della gerarchia dei carnefici che, per ragioni di interesse, impedisce alla comunità internazionale di condannare con la stessa forza i medesimi crimini a seconda se questi siano compiuti da Paesi alleati o nemici».