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    La svolta autoritaria di Netanyahu rischia di trasformare Israele in una democratura

    Credit: AGF

    Riforme illiberali, pulsioni discriminatorie e apartheid per i palestinesi. Con la destra al governo Israele rischia di diventare un’altra Ungheria. Ma una stretta sui diritti potrebbe pregiudicarne la stabilità

    Di Giulio Alibrandi
    Pubblicato il 5 Feb. 2023 alle 08:00

    Una «crisi costituzionale di proporzioni storiche». La svolta a destra dello Stato ebraico, cavalcata alle ultime elezioni da Benjamin Netanyahu, sta mettendo a rischio la tenuta della società israeliana.

    A dare l’allarme, mentre montano le proteste nelle principali città del Paese, è direttamente il capo di Stato israeliano, Isaac Herzog. «Siamo alle prese con un profondo dissidio che sta lacerando la nostra nazione», ha avvertito il presidente israeliano, a due sole settimane dall’insediamento del sesto governo presieduto da Benjamin Netanyahu. Un esecutivo in cui sono presenti per la prima volta forze che erano state escluse dalla vita politica israeliana, in grado ora di garantire quella stabilità che mancava da tre anni. 

    Dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, autodefinitosi «omofobo fascista», al condannato per incitamento al razzismo finito a guidare la polizia, il profilo della nuova maggioranza non ha mancato di far discutere fuori e dentro il Paese. Al di là dei trascorsi dei suoi componenti, a scatenare forti proteste sono state però le misure che il governo si prepara ad attuare fin da subito.

    Un programma di riforme radicale, che porta al centro dell’agenda molte richieste di lungo corso della destra israeliana. Prima fra tutte, regolare finalmente i conti con l’establishment giudiziario.

    Guerra alla Corte suprema
    «Andiamo alle urne, votiamo, eleggiamo e, di volta in volta, le persone che non abbiamo eletto scelgono al posto nostro», la sintesi del nuovo ministro della Giustizia, Yariv Levin, che punta il dito contro la Corte suprema israeliana: «Questa non è democrazia». Le proposte presentate da Levin mirano a piegare «l’attivismo giudiziario» della Corte, accusata di aver ostacolato l’azione dei governi conservatori dell’ultimo trentennio. In base alla riforma, sarà sufficiente una maggioranza semplice in parlamento per ignorare le sentenze con cui la Corte suprema decreta l’annullamento di una legge. Inoltre per abrogare le norme sarà richiesta una non specificata “maggioranza speciale” dei 15 membri della Corte suprema.

    Misure che «minacciano di distruggere l’intera struttura costituzionale dello Stato di Israele», secondo il capo dell’opposizione ed ex primo ministro, Yair Lapid, a cui fanno eco anche importanti esponenti del mondo giudiziario, come l’attuale procuratore generale. La stessa presidente dell’Alta corte, Esther Hayut, ha parlato senza mezzi termini di «un piano per schiacciare il sistema giudiziario».

    Ad alzare il livello dello scontro ci ha pensato anche la nomina a ministro dell’Interno e della Salute dell’ultraortodosso, Aryeh Deri, già condannato nel 2000 per corruzione e l’anno scorso per evasione fiscale. Un incarico destinato a finire sotto la lente della Corte suprema, che ha infatti ordinato al governo di rimuoverlo. «Questa decisione infelice ignora la volontà del popolo», ha commentato Netanyahu, a sua volta indagato per corruzione, frode e abuso d’ufficio. Nonostante il malumore all’interno della coalizione, Netanyahu ha scelto di rispettare la sentenza, anche se con la riforma non sarà più possibile adottare decisioni simili. La Corte non potrà infatti più fare ricorso al criterio della “ragionevolezza” per decidere se le decisioni del governo rientrano o meno entro i confini della legge, lo stesso citato nel caso di Deri. La nomina del leader di Shas, secondo partito nella coalizione, è stata considerata “irragionevole” alla luce delle condanne passate.

    “L’ora delle tenebre”
    Oltre a una riforma profonda del massimo organo giudiziario del Paese, la destra ha promesso di allargare ulteriormente gli insediamenti nei territori palestinesi, considerati illegali dalla comunità internazionale, e un cambiamento profondo nei rapporti tra Stato e religione, fino a consentire la discriminazione su base religiosa di chi fornisce beni o servizi. In questo modo, secondo i parlamentari che hanno avanzato le proposte, i medici potrebbero rifiutare le cure a persone Lgbt o gli alberghi rinunciare a ospitare una coppia gay. Netanyahu ha risposto a queste dichiarazioni promettendo che il suo governo non consentirà «alcuna discriminazione delle persone Lgbtq né danneggerà i diritti di qualsiasi altro cittadino israeliano». Rimangono però i timori di una stretta generalizzata ai diritti, limitata non più ai soli palestinesi, che secondo Amnesty e Human Rights Watch vivono ormai in un regime di pieno apartheid.

    Da quando si è insediato il governo decine di migliaia di persone hanno affollato a cadenza settimanale le strade delle principali città israeliane, nel timore che Israele diventi «la prossima  Polonia, Turchia o Ungheria». Le proteste più grandi si sono viste a Tel Aviv, città simbolo della libertà e del benessere promessi dal modello israeliano, che ogni anno ospita uno dei più importanti gay pride al mondo. «Adesso è l’ora delle tenebre», ha detto a una delle manifestazioni il celebre autore David Grossman. «Ciò che accade oggi determinerà ciò che sarà e chi diventeremo noi e i nostri figli».

    Anche la stampa internazionale non ha nascosto preoccupazione per la traiettoria della società israeliana. La ”oasi di democrazia” evocata negli anni scorsi da Netanyahu rischia di diventare poco più di «un miraggio» secondo il Washington Post, che come altre testate ha dato voce a chi in Israele e all’estero teme che la deriva illiberale dello Stato ebraico possa arrivare a pregiudicarne anche la stabilità, oltre che i diritti di chi ci vive.

    Secondo Benny Gantz, esponente di spicco dell’opposizione ma anche ex capo di Stato maggiore, è «prevedibile» che la stabilità nei territori palestinesi risentirà dei nuovi equilibri politici e che «sarà versato sangue» in Cisgiordania, dove le forze di sicurezza israeliane hanno intensificato i raid come parte della cosiddetta “Operazione frangiflutti”. Secondo l’ong israeliana B’Tselem, nel 2022 almeno 146 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane nei territori occupati di Gerusalemme Est e Cisgiordania, il dato più alto dal 2004.

    A infiammare le tensioni nelle ultime settimane hanno anche contribuito le dichiarazioni del ministro della Sicurezza nazionale, l’estremista Itamar Ben-Gvir, che ha ordinato alla polizia di rimuovere le bandiere palestinesi dai luoghi pubblici, pochi giorni dopo aver visitato la Spianata delle moschee.

    Dopo la visita di Ben Gvir, l’ambasciatore statunitense ha ribadito la necessità di mantenere lo «status quo nei luoghi santi di Gerusalemme» mentre l’amministrazione Biden ha chiesto di evitare azioni che possano «infiammare le tensioni». 

    Le perplessità di Washington, e le differenze sull’accordo per il nucleare iraniano, non hanno ostacolato gli stretti rapporti militari. Proprio la settimana scorsa si è tenuta l’esercitazione congiunta “Juniper Oak”, considerata «la più importante» nella storia dei due Paesi. Ad essa hanno preso parte circa 6.400 soldati statunitensi, coinvolgendo forze di terra, mare, aria e spazio. Un dispiegamento significativo, considerato un messaggio all’Iran e anche alla Russia, che si prepara a tenere esercitazioni navali con la marina cinese in Sudafrica.

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