“Una nuova catastrofe”: Come è iniziato il peggior conflitto degli ultimi anni tra Israele e Gaza
Un piccolo quartiere al confine tra la parte occidentale e orientale di Gerusalemme è al centro delle tensioni che negli ultimi giorni hanno portato al peggior conflitto tra Israele e Gaza dal 2014, in cui hanno già perso la vita 53 palestinesi e 6 israeliani.
Situato circa due chilometri a nord della Città vecchia, Sheikh Jarrah, è da anni bersaglio degli sforzi legali di gruppi di ebrei israeliani che tentano di espellere le famiglie palestinesi dall’area, rivendicando la proprietà delle abitazioni in cui risiedono.
Nel quartiere, che prende il nome dal medico personale di Saladino, oltre 70 famiglie palestinesi rischiano di perdere le proprie case nelle prossime settimane e di essere sostituite da ebrei israeliani, grazie a una legge del 1970 che permette di reclamare la proprietà dei terreni appartenuti agli ebrei prima della guerra arabo-israeliana del 1948. Una possibilità che però la legge non riconosce ai palestinesi che hanno perso terreni nella stessa guerra, anche se risiedono ancora in aree controllate da Israele.
La scorsa settimana, Hamas, il movimento islamico palestinese che controlla la striscia di Gaza, ha affermato che Israele avrebbe pagato “a caro prezzo” la decisione di procedere con gli sfratti, visti come parte di una strategia mirata per espellere i palestinesi da Gerusalemme Est e alterare la composizione demografica della città santa. Il governo israeliano ha dichiarato invece di considerare la questione una disputa immobiliare tra privati.
Lunedì 10 maggio era attesa la decisione della Corte suprema in un caso che coinvolge quattro famiglie, rinviata a data da destinarsi dopo settimane di proteste. A rendere ancora più incandescente la situazione, nella stessa data dell’udienza ricorreva la Giornata di Gerusalemme, festa nazionale per ricordare la presa di Gerusalemme Est nella guerra dei sei giorni del 1967, tradizionalmente celebrata da gruppi nazionalisti israeliani con una marcia che attraversa Città vecchia e il quartiere musulmano.
Il rinvio dell’udienza, chiesto dal procuratore generale israeliano, non ha frenato le tensioni che già da metà aprile hanno portato a violenti scontri per le vie di Gerusalemme tra palestinesi ed ebrei israeliani e forze dell’ordine, culminate con l’intervento della polizia israeliana nella moschea di al-Aqsa, considerato uno dei luoghi più sacri dell’Islam. Nell’irruzione di lunedì mattina circa 300 palestinesi sono rimasti feriti da gas lacrimogeni, proiettili di gomma e granate stordenti.
Un’escalation improvvisa
Dopo aver chiesto il ritiro delle forze israeliane da Sheikh Jarrah e al-Aqsa, nel tardo pomeriggio di lunedì Hamas ha lanciato razzi contro Gerusalemme per la prima volta dal 2014. Questi sono stati seguiti finora da altri 1.200 razzi diretti verso anche altre città israeliane, come Tel Aviv e Be’er Sheva. La risposta dell’aviazione israeliana non si è fatta attendere, con centinaia di raid condotti contro l’enclave palestinese in meno di due giorni (500 fino a stamattina). Secondo il ministero della Salute di Gaza, 53 palestinesi hanno finora perso la vita nei raid, di cui almeno 14 bambini, a fronte di 320 feriti. In Israele 6 persone sono morte a causa dei razzi lanciati da Gaza e decine risultano ferite.
“Non tollereremo attacchi al nostro territorio, alla nostra capitale, ai nostri cittadini e ai nostri soldati. Chi ci colpisce pagherà un prezzo altissimo”, ha detto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, promettendo una risposta “molto dura” a Hamas. Nelle scorse ore l’aviazione israeliana ha dichiarato di aver colpito siti di lancio dei razzi, uffici di Hamas e abitazioni dei leader dell’organizzazione, affermando di aver ucciso diversi leader militari e di intelligence. Negli attacchi, preceduti da avvertimenti ai civili, sono stati colpiti anche edifici residenziali. Finora tre palazzi con più di 10 piani sono stati abbattuti dall’aviazione israeliana.
Settimane di scontri
Già ad aprile decine di palestinesi erano rimasti feriti ed erano stati arrestati negli scontri con le forze dell’ordine, per protestare conto le restrizioni agli assembramenti nei pressi della porta di Damasco, una delle entrate principali alla Città vecchia che contiene alcuni dei siti più sacri per ebrei e musulmani. Il gruppo estremista di destra Lehava ha risposto a sua volta sfilando nel centro di Gerusalemme al grido di “A morte gli arabi” e attaccando passanti palestinesi. Dopo circa 10 giorni le restrizioni sono state rimosse ma le proteste si sono spostate nel quartiere di Sheikh Jarrah, situato a 500 metri dalla Porta, per protestare contro gli sfratti, condannati da organizzazioni umanitarie e Nazioni Unite come contrari al diritto internazionale oltre a essere stati criticati anche da alleati del governo israeliano come gli Stati Uniti.
Le famiglie coinvolte nei casi vivono in case costruite dopo la guerra del 1948, quando Gerusalemme Est era finita sotto il controllo della Giordania, passato a Israele dopo la guerra dei sei giorni del 1967. Il governo israeliano ha poi deciso di restituire la proprietà dei terreni ad alcuni trust che li avevano rilevati nel 1876, sotto l’impero ottomano, che a loro volta li hanno ceduti a coloni israeliani. Questi dagli anni ’70 hanno ingaggiato battaglie legali per rimuovere i residenti palestinesi, che si trovano ad affrontare sempre più ostacoli al tentativo di rimanere all’interno della città dopo gli sfratti. Infatti, il costo e la difficoltà di ottenere nuovi permessi di costruzione spinge molti a spostarsi in Cisgiordania o a costruire abitazioni abusive che rischiano di essere demolite. Grazie anche alle disparità nella concessione di licenze edilizie, circa 220.000 ebrei israeliani vivono adesso a Gerusalemme Est, a fronte dei circa 350.000 palestinesi confinati in quartieri molto affollati.
“Una nuova Nakba” la definisce in un’intervista ad Al Jazeera Abdel Fattah Iskafi, 71enne minacciato di sfratto, citando il termine, traducibile come catastrofe, usato dai palestinesi per indicare la nascita dello stato israeliano.
Negli scorsi giorni le proteste si sono allargate in altre città israeliane oltre a Gerusalemme, come Lod, dove gli scontri delle ultime ore hanno spinto le autorità a dichiarare lo stato d’emergenza. Secondo il sito d’informazione Times of Israel, si tratta della prima volta dal 1966 che il governo ha usato i poteri d’emergenza in una comunità palestinese.
Guerra su larga scala
Il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio oriente, Tor Wennesland, ha avvertito che l’escalation del conflitto tra Israele e Gaza potrebbe portare a una guerra su larga scala. “Il costo di una guerra a Gaza è devastante e lo pagano le persone ordinarie”, ha affermato in un tweet in cui ha chiesto un cessate il fuoco “immediato” e ai leader di entrambe le parti di assumersi la responsabilità della “deescalation”.
L’Egitto, che confina con la striscia di Gaza, sta cercando una mediazione per arrivare a un accordo di cessate il fuoco tra Israele e i gruppi di Gaza coinvolti negli scambi di missili, che oltre a Hamas comprendono la Jihad Islamica. Un’ipotesi per il momento respinta dalle autorità israeliane.
“Israele non si sta preparando per un cessate il fuoco. Al momento non esiste una data di fine per l’operazione”, ha detto oggi il ministro della Difesa Benny Gantz. “Solo quando raggiungiamo la quiete completa possiamo parlare di calma”, ha aggiunto durante una visita alla città di Ashkelon, colpita dai razzi. Oggi Gantz ha anche ordinato la formazione del Comitato economico d’emergenza, una decisione solitamente presa prima di operazioni militari importanti e ha prolungato di due settimane lo stato di allerta fino a 80 chilometri dalla striscia di Gaza, a indicare che gli attacchi continueranno per un periodo prolungato di tempo.
Secondo le Nazioni Unite, durante i 51 giorni di conflitto nella striscia di Gaza nel 2014 sono stati uccisi 1.462 civili palestinesi, un terzo dei quali bambini, a fronte di 6 civili israeliani uccisi dal lancio di razzi dall’enclave.
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