Lo scorso 26 dicembre, mentre nel mondo cristiano si celebrava la Festa di Santo Stefano, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant dichiarava: «Siamo stati attaccati da sette fronti: Gaza, Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq, Yemen e Iran. Abbiamo reagito e operato in sei di quelle aree». Con quel “sei su sette” Gallant lasciava intendere che l’unico nemico a cui lo Stato ebraico non aveva risposto era la Repubblica islamica di Teheran.
Quattro mesi dopo quelle parole, però, la linea rossa è stata superata: Israele si ritrova per la prima volta muso contro muso con gli ayatollah in uno scambio diretto di raid che tiene il Medio Oriente (e il mondo intero) con il fiato sospeso.
Adesso che il conflitto sembra entrato in una nuova fase, gli analisti si interrogano su come questo acutizzarsi delle tensioni fra le due potenze regionali possa influire sul proseguo dell’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza.
Quale strategia?
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha subito fatto sapere che non intende retrocedere: Gaza, ha spiegato, «fa parte di un sistema più grande» perché «dietro Hamas e dietro Hezbollah c’è l’Iran». «Siamo determinati a vincere lì e a difenderci su tutti i fronti», ha confermato.
E anche il ministro del gabinetto di guerra Benny Gantz, ex capo di stato maggiore nonché leader dell’opposizione a Netanyahu, ha avvertito: «Continueremo la campagna militare con determinazione e responsabilità».
Peraltro, lo scontro vis-à-vis con l’Iran si è materializzato proprio nelle settimane in cui l’Idf si ritirava da Khan Younis, città nel sud della Striscia ormai devastata da mesi di combattimenti e bombardamenti. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, il parziale disimpegno potrebbe segnare l’inizio di una nuova strategia nella guerra contro Hamas, caratterizzata da operazioni più mirate e di portata inferiore, ma Netanyahu assicura che i piani non sono cambiati e che il prossimo obiettivo è la città di Rafah, l’ultima roccaforte dei combattenti palestinesi al confine con l’Egitto.
Quel che è certo è che l’assedio su Gaza non sta avendo il successo sperato. Il ministro Gadi Eizenkot, esponente della stessa formazione politica di Gantz e anche lui ex capo di stato maggiore, lamenta la mancata liberazione degli ostaggi da parte di Hamas. «Il nemico più debole in Medio Oriente ci ha causato i danni maggiori, dobbiamo cambiare la nostra strategia», osserva, lui che a dicembre ha perso un figlio nella Striscia, ucciso da un ordigno durante un rastrellamento.
Secondo l’ex ambasciatore britannico in Israele Tom Phillips, addirittura, «Hamas ha vinto»: in un editoriale pubblicato su Haaretz, Philips ha osservato che il gruppo armato palestinese «ha ribaltato il copione di un Israele militarmente invincibile e ha messo in luce la fragilità del suo sostegno internazionale, sollevando difficili domande sulla sua sostenibilità a lungo termine».
Ma Netanyahu deve fare i conti anche con gli inviti alla calma provenienti dalle cancellerie di Stati Uniti, Europa e Onu. A questo punto, c’è chi sostiene che, con l’attacco all’ambasciata iraniana di Damasco, il premier dello Stato ebraico abbia voluto stuzzicare la reazione di Teheran per distogliere l’attenzione internazionale da Gaza.
«È stato un tentativo deliberato di coinvolgere l’Iran in una guerra regionale e di spostare l’attenzione degli Usa e dell’Occidente dalla guerra di Israele a Gaza verso lo spauracchio regionale, l’Iran», ha scritto su Al Jazeera Simon Speakman Cordall, giornalista esperto del mondo islamico. Anche per l’analista Nomi Bar-Yaacov, membro associato del prestigioso think tank londinese Chatham House, «il piano di Netanyahu è distogliere l’attenzione dalla guerra a Gaza e riportare gli Stati Uniti e gli altri alleati occidentali in Medio Oriente».
Da Rafah a Teheran
Il New York Times ha interpellato alcuni ex militari israeliani su ciò che potrebbe accadere ora nella Striscia. Le valutazioni emerse sono piuttosto divergenti tra loro.
Shlomo Brom, generale di brigata in pensione ed ex direttore della divisione di pianificazione strategica dell’Idf, ritiene che un conflitto con l’Iran potrebbe spingere lo Stato ebraico quantomeno a ritardare la prevista offensiva su Rafah. Ma – aggiunge – potrebbe anche avere come risultato quello di porre fine alle ostilità a Gaza: «Non è comodo per noi avere guerre simultanee e ad alta intensità in più teatri», argomenta il generale. «C’è l’idea che per risolvere una crisi la situazione debba prima peggiorare». Per Brom, un’escalation seguita da un cessate il fuoco globale tra Israele e Iran potrebbe indurre Teheran a fare pressing sui suoi “proxies” regionali per smettere di combattere con lo Stato ebraico.
Altri esperti militari, però, non sono d’accordo. «Non c’è alcun collegamento» tra le tensioni con la Repubblica islamica e l’operazione in corso nella Striscia, afferma Amos Gilead, maggior generale in pensione che ha prestato servizio nell’intelligence militare israeliana: per Gilead, l’Idf dispone di risorse sufficienti per combattere contro l’Iran e contemporaneamente continuare a condurre la guerra contro Hamas.
Alcuni analisti, inoltre, riferisce sempre il New York Times, fanno notare che i mezzi militari necessari per fronteggiare gli ayatollah sono diversi da quelli impiegati a Gaza: nel primo caso servono aerei da combattimento e sistemi di difesa aerea, mentre nel secondo bisogna avvalersi principalmente di truppe di terra, droni ed elicotteri d’attacco.
Anche Giora Eiland, maggior generale in pensione ed ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano, sostiene che tra i due fronti non c’è correlazione. Tuttavia, secondo il militare, il successo della coalizione di Paesi che, nella notte tra il 13 e il 14 aprile, ha respinto l’attacco di Teheran potrebbe convincere lo Stato ebraico a sfruttare a proprio vantaggio questo momento per superare l’immagine negativa che ha assurto a livello internazionale e porre fine alla guerra nella Striscia. Eiland ipotizza anche che il sostegno prestato dagli Stati Uniti nel difendere Israele dai missili e dai droni iraniani possa aumentare l’influenza di Washington su Tel Aviv e condurre a un cessate il fuoco.
Status di paria
A maggior ragione se la guerra contro Hamas andrà avanti, la nuova contrapposizione diretta con l’Iran renderà ancora più opprimente lo stato di emergenza permanente in cui gli israeliani vivono da ormai più di settant’anni.
«Questo è il fallimento dei sogni dei fondatori di Israele e di generazioni di israeliani», scrive su The Guardian l’analista politica Dahlia Scheindlin, residente a Tel Aviv, sottolineando come Israele fosse nato per essere un rifugio sicuro per il popolo ebraico. Al contrario, osserva Scheindlin, oggi «Israele si sta avviando verso lo status di paria», una terra dove «gli israeliani si rannicchiano nei rifugi, schiacciati entro confini rimpiccioliti all’interno del loro stesso Paese». La politica di Netanyahu, avverte l’analista, rischia di isolare ancor più lo Stato ebraico: «Nei Paesi democratici, dove le persone votano liberamente, in futuro si sceglieranno leader che saranno molto meno gentili con Israele».
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