Quando entra nella stanza Mohammed Koraichi è sorpreso. Non si aspettava di trovarsi davanti tre donne.
Ha una tuta arancione, la stessa che lo Stato Islamico usava nelle esecuzioni e utilizzata dagli americani a Guantanamo. Ha un cappello grigio usurato e arrotolato sulla testa. Sorride, si siede. Non dà la mano, porge l’avambraccio. E comincia a mentire. Una bugia dietro l’altra. Si mostra docile, dice di essere una brava persona. E che lui nello Stato Islamico non ha fatto nulla.
“Facevo il meccanico, non ero un combattente”, sostiene per poi aggiungere: “L”Italia ci deve riportare indietro, perché io sono un cittadino italiano”. Non ha paura di una condanna. “Se troveranno prove contro di me sono ben contento di sedermi in tribunale. Ma non troveranno niente, perché io non ho fatto niente”. Lo dice con un’aria di sfida ma non sa che la macchina della giustizia italiana si è già mossa contro di lui.
Infatti su Koraichi, 34 anni, e la moglie Alice Brignoli, 42, c’è un’ordinanza di custodia cautelare. È ricercato per terrorismo internazionale, ed è accusato di essere stato il mentore del pugile dell’ISIS Abderrahim Moutharrik in carcere a Sassari con un condanna a 6 anni. Anche sua sorella Wafa è stata condannata per terrorismo internazionale, secondo gli inquirenti faceva parte di una cellula di reclutamento con il fratello.
Oggi Karaichi è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza ad Hasakah nel nord est della Siria. È nell’ala dell’ospedale, in una cella con quasi 500 persone. Nella prigione ci sono in totale 5mila detenuti, di 33 nazionalità diverse. Tutti affiliati a ISIS e il 90 per cento arrestati durante l’ultima battaglia a Baghouz. I più radicali, quelli che non hanno mollato fino alla fine.
Non sanno nulla di quello che accade fuori. Non hanno idea dell’invasione della Turchia e nemmeno della morte del leader Abu Bakr Al-Baghdadi. Farglielo sapere vuol dire aspettarsi delle rivolte. “Cercherebbero di fuggire, e si scatenerebbe il caos”, spiega Rubar Hasakhi, a capo della struttura che ha aperto cinque mesi fa. È una scuola abbandonata dal regime siriana e convertita a carcere. Le pareti sono azzurre, e panna. Ci sono un centinaio di celle, tutte sovraffollate. “Qui ci sono i più pericolosi, non aspettano altro che uscire e tornare combattere. I leader si nascondono, per non farsi riconoscere ma noi sappiamo che sono qui”.
Nelle ultime settimane le cellule dormienti dell’ISIS hanno cercato di attaccare il carcere più volte ma sono stati respinti. E spesso si sentono sparatorie intorno al carcere a monito dei prigionieri, loro lo sanno che qualcosa è cambiato. “Le condizioni sono migliorate nell’ultimo mese” dice Karaichi. Per poi appellarsi a trovare una soluzione: “Siamo esseri umani anche noi”.
Nato in Marocco, e arrivato in Italia a 8 anni, Karaichi dice di aver avuto una vita normale. “Avevo amici italiani, ero ben integrato”. Faceva il carpentiere. Poi si è radicalizzato con la moglie che ha abbracciato l’Islam. “Tantissima gente si è convertita così”. Andava alla moschea di Costamasnaga. “Quando mia moglie ha cominciato a usare il niqab (il vestito nero integrale ndr) la gente non ci ha accettato, commentava tipo: ‘cosa ci fanno questi qui?’”.
Anche per questo, dice ha scelto di andare a vivere nello Stato Islamico con la moglie e i tre figli. Alla fine del 2014, “Ho guidato fino ad Urfa, in Turchia”. Nessun problema sulla strada, è stato fermato ma poi tutto si è risolto. “Avevo il passaporto Italiano”.
Una volta entrato nello Stato islamico nega ogni coinvolgimento nella parte militare, e figuriamoci del reclutamento internazionale in Italia. Non parla della sorella o dell’amico pugile. Insiste sul fatto di non aver fatto nulla. In Siria è nato anche un quarto figlio. Nei quattro anni e mezzo con ISIS è rimasta una grande amarezza. Per la sconfitta ma anche per motivi religiosi. “Non erano veri musulmani e la Sharia (la legge islamica ndr) non era applicata a tutti”. Spiega di una giustizia non equa ma non parla delle esecuzioni. “Io non ho visto nulla”.
Dopo la caduta di Raqqa, a ottobre 2017, ha seguito la lunga scia di miliziani che si sono spostati di città in città, di villaggio in villaggio fino a Baghouz, ultimo fazzoletto di ISIS in Siria. “Dove altro sarei potuto andare?”.
Insiste che non ha mai combattuto, quando l’intelligence curda e non solo, ha le prove che tutte le persone a Baghouz, incluse le donne, hanno resistito con le armi. Si è consegnato alle Forze Democratiche Siriane, e non pensava di venire arrestato. La moglie e i figli sono in un campo e non ha loro notizie da mesi.
Dice anche di non essere mai stato intervistato prima, anche se meno di tre settimane fa ha incontrato un altro giornalista italiano. Spiega di essere malato e di aver bisogno di cure. “Ho bisogno di una eco ma qui non hanno i macchinari”. Si appella allo Stato Italiano per essere riportato indietro con la sua famiglia. Chiede un po’ di umanità. “Siamo esseri umani, abbiamo i nostri diritti”.