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    Il Califfato del Terrore

    Maurizio Molinari racconta a The Post Internazionale il suo libro sullo Stato Islamico. E avverte: ci terranno compagnia a lungo

    Di Davide Lerner
    Pubblicato il 11 Apr. 2015 alle 19:13 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 20:11

    Il quadrilatero parigino che si può ritagliare fra Rue Nicolas-Appert, ex sede degli uffici di Charlie Hebdo, e il largo viale Richard Lenoir, dove fu giustiziato il poliziotto Ahmed, è diventato un vero e proprio memoriale a cielo aperto.

    Fra i murales che sembrano dar nuova vita al grigio dell’asfalto, fra i fiori, di cui alcuni appena sbocciati, e altri già secchi e appassiti, pile di matite colorate e piccole opere d’arte dedicate ai martiri della libertà, i soldati ancora in presidio del civico 6, cacciano i curiosi, con un duro: “Pas de visite!”.

    Tra i vicoli cittadini, qualcuno ancora non è stanco di raccontare dove si trovava in quel momento, aggiungendo un commosso: “Avrei dovuto passare di lì” o “Il mio amico stava proprio per passarci”.

    La memoria, però, sbiadisce di pari passo con l’incedere del tempo, proprio come quell’inchiostro stinto dalla pioggia che aveva dato voce a emozionati addii nelle lettere deposte sugli stipiti degli uffici.

    Proprio dall’attacco alla redazione di Charlie Hebdo, lo storico corrispondente de la Stampa Maurizio Molinari decide di cominciare la stesura del proprio libro-reportage sullo Stato islamico Il Califfato del terrore, edito da Rizzoli.

    Cos’è l’Isis, senza giri di parole 

    “Abbiamo i barbari alle porte di casa”, esordisce Molinari. “Sono loro che hanno aggredito Parigi e vogliono dichiarare guerra all’Europa”.

    Il viaggio di Il Califfato del terrore parte dalla Giordania, definita una “monarchia seduta sul vulcano della jihad”. Perché hai scelto di iniziare proprio dalla Giordania? E, soprattutto, che ruolo ha avuto la Giordania nella scacchiera dell’Isis?

    La Giordania è una monarchia fragilissima che si trova nell’area di confine, in un continuo faccia a faccia con lo Stato Islamico. Sicuramente la sua gracilità e precarietà le permette di ottenere delle “rendite strategiche”, cioè costanti flussi di aiuti finanziari e armamenti da Stati Uniti, Israele e svariati stati europei.

    Ciò non toglie, però, che Abdallah e il suo regime siano perennemente a rischio: in Giordania l’Isis è presente in modo ingombrante, ed ostenta la propria consistenza con sfilate di macchine e bandiere nere. I suoi membri sono nella capitale Amman, a Zarqa, la città di Al Zarqawi, così come a Salt.

    La loro minaccia sta diventando la causa della formazione di paradossi geostrategici spaventosi: la dittatura giunge al punto di collaborare con Al Qaeda, in virtù del principio per cui il nemico del tuo nemico è, di conseguenza, tuo amico.

    L’azione di Al Qaeda si scontra, infatti, con le attività dell’Isis, soprattutto per quanto riguarda la gestione dei rapporti con la setta sciita: se Bin Laden voleva unire l’Islam sotto la propria bandiera per fronteggiare l’Occidente, Al Baghdadi vuole sradicare la minoranza sciita.

    Scorrere le pagine di un quotidiano filo monarchico ad Amman, ricco di interviste ai leader di Al Qaeda, trattati come interlocutori rispettabili ed autorevoli, fa comunque strabuzzare gli occhi. D’altronde, c’è una ragione logica che spiegherebbe la situazione: il regime di Abdallah è sempre più isolato, e strutturalmente molto debole.

    I palestinesi non sostengono il sistema, e il re giordano non è più sostenuto neppure dalle tribù beduine che ne hanno rappresentano la spina dorsale e che, a lui, preferirebbero di gran lunga il fratello minore Hamza.

    Chi è Al Baghdadi, il leader dell’Isis?

    Rimane un nebuloso punto interrogativo. Si sa che quando l’uomo si trovava all’interno delle prigioni americane di Camp Bucca esercitava un grande carisma, raccoglieva seguito, ma, secondo il colonnello Kenneth King, non era di certo uno dei più crudeli.

    Al momento del rilascio, poi, salutò il colonnello con un beffardo “See you in New York”. Gli americani avevano commesso un errore macroscopico tra le mura di Camp Bucca: quello di mettere nelle stesse celle jihadisti e Baathisti (gli ex uomini di Saddam, n.d,r.).

    Lo racconto nel capitolo del mio libro intitolato Il patto fra taqfiri e baathisti. Le due anime oggi convivono nel corpo dello Stato Islamico, unite dal potente collante anti-sciita. Se nella fase precedente all’affermazione del califfato furono i veterani di Saddam a prevalere, ad oggi gli equilibri si sono stabilizzati, ma l’ossatura statale e la strategia militare rimangono nelle loro mani.

    Collaborando, attraverso i piani tattici che implicano il controllo di sfere delicate come quelle del petrolio e dei rapimenti, sono riusciti ad avviare un’organizzazione terroristica che, per la prima volta nella storia, è completamente autofinanziata, grazie alle risorse dei territori che controlla.

    I flussi di denaro provenienti dal Qatar e dal Kuwait, e anche l’iniziale sostegno turco, hanno giovato al Califfo come fondamenta economiche di un sistema che oggi è un muro portante in grado di reggere se stesso, e non più un tramezzo che necessitava di aiuti finanziari per poter sopravvivere e crescere.

    Attualmente, questa solidità economica è ciò che permette al gruppo di presentarsi, soprattutto nelle zone di nuova conquista, come stato welfarista e munifico, elemento tipico e ricorrente nei movimenti islamisti.

    Le persone intervistate in Giordania ricordano con nostalgia i tempi in cui le loro madri e le loro nonne “vivevano ad Amman, facevano la spesa a Nablus, e pranzavano a Damasco”. Perché questa mobilità rappresenta un elemento significativo per comprendere la realtà Isis?

    Qui tocchi il punto chiave necessario a spiegare la solidarietà dimostrata al califfato in Medio Oriente. Gli arabi non hanno mai ceduto all’imposizione territoriale degli stati post-coloniali, eredità di cui i confini furono tracciati artificialmente da Francia e Inghilterra nelle carte degli accordi Sykes-Picot del 1916.

    Ciò trova fondamento nel fatto che la missione di Al Baghdadi di riunificare la ummah (il popolo musulmano, n.d.r.) sotto il “Bilad Al Sham”, la leggendaria nazione araba del levante, che corrisponde a Iraq, Siria, Giordania, Libano, Israele e autorità nazionale palestinese, possa fare breccia nella sensibilità araba e nei cuori musulmani più di quanto crediamo.

    Per quanto possiamo supporre che quest’uso spropositato e smodato della violenza, fatto proprio dal gruppo, potrebbe attecchire e avere richiamo solo negli animi barbari, dovremmo tener anche presente che, quando il Califfo offre la possibilità di “essere tutti uniti”, la sua voce risuona nelle valli come una calamita capace di tutt’altra efficacia e di tutt’altro magnetismo.

    Chi vive ad Amman, così come a Beirut, oppure a Baghdad o ancora ad Haifa, parla lo stesso dialetto arabo, condivide la stessa cultura, ed è parte del medesimo spazio umano. Al Baghdadi è già riuscito a far cedere il confine fra Siria ed Iraq, arrivando a controllare un territorio di oltre 250 mila chilometri quadrati, che corrisponde all’incirca al territorio della Gran Bretagna.

    Il fronte degli oppositori è una Babele divisa, a tal punto che non mi stupirei se i 30.000 miliziani del Califfo continuassero imperterriti a compiere passi sempre più lunghi, con l’aiuto di una legione straniera più poderosa di quella che sostenne i mujaheddin afghani contro l’armata rossa.

    Esiste davvero un legame significativo fra l’Isis e l’estremismo islamico in Occidente?

    Si, ed è un legame che lo stesso Al Baghdadi tiene fortemente a riaffermare. Lo ha sottolineato in particolare dopo che, lo scorso settembre, gli americani hanno tentato di eliminarlo con un raid a Qaim, lo snodo viario del Califfato, al confine fra l’Iraq e la Siria.

    Lo identificarono, lo colpirono, riuscendo, però, solo a ferirlo. Quell’avvenimento rappresentò una svolta nell’importanza che il Califfo attribuisce alle cellule jihadiste internazionali: “Dovete far esplodere i vulcani sotto i piedi dei nostri nemici”, disse in un discorso, una volta ripresosi dall’attacco.

    Il ferimento lo aveva convinto di dover portare la guerra all’estero, nel “dar al harb” (il territorio infedele di conquista, n.d.r.). Ciò non si traduce nell’invio di rappresentanti con l’obiettivo di sviluppare una rete diretta di collegamento al Califfo. Al contrario, i meccanismi utilizzati, sono più subdoli e trovano un riscontro nel principio del “franchising”.

    Per accattivarsi simpatizzanti e sostenitori, il promotore di tante “barbarie medievali” si avvale di modalità modernissime, a partire dalla messaggistica online. La forza del gruppo, infatti, scorre nelle chat: come Obama fece per vincere la campagna presidenziale del 2012, cioè gestendo brillantemente la comunicazione digitale, anche il Califfo si sta dimostrando maestro in materia.

    L’Occidente sa come muoversi, come e da dove iniziare a contrastare il gruppo terroristico?

    Gli occidentali, per cultura e per abitudine democratica, ragionano in termini di partiti politici, di leader, di stati, di coalizioni di stati, mentre in Medio Oriente ci si confronta con tribù e clan. Le tribù portano avanti il proprio, unico, interesse: controllare zone sempre più floride, trarne profitti da suddividere fra chi appartiene alla tribù.

    Per questo motivo, le tribù si piegano molto facilmente alle volontà e ai denari altrui; in particolare, trattano con Al Baghdadi, pur non opponendosi, forse per principio o per lealtà di appartenenza nazionale.

    Al generale americano Petreus questa dinamica era chiara, e infatti ha saputo comportarsi come un gigante. Ha applicato la lezione appresa dalla sconfitta in Vietnam -cioè che la mancanza di contatto con il nemico può essere fatale- alla realtà clanista mediorientale.

    Nell’Anbar (una regione dell’Iraq, n.d.r.) era riuscito a coinvolgere le tribù assumendo i giovani in unità controllate dai vecchi, e in questo modo aveva evitato che vedessero come merce di corruzione i sacchi contententi denaro che il generale provvedeva a inviargli attraverso i Marines.

    Purtroppo, in generale, l’Occidente non è avvezzo a questi contesti, e, di conseguenza, non è in grado di leggere e carpire la realtà dei clan adattando l’anti-guerriglia ai propri meccanismi: l’unica cancelleria che conserva ancora qualche mappatura delle tribù mediorientali è quella inglese, ma si tratta, più che altro, di residui post-coloniali.

    Potrebbe essere necessario ed, eventualmente, efficace cercare un dialogo con l’Isis?

    Se l’Occidente potesse contare ancora su un leader del calibro di Eisenhower e di Andreotti, qualcuno, probabilmente, ci avrebbe già dialogato. Questi leader erano capaci di combinare la propria visione della real-politik con gli interessi nazionali; questo, in Occidente, non esiste più dai tempi della Guerra Fredda, quando si era consolidata, cioè, l’abitudine di trattare con i nemici.

    Per dialogare con il Califfo bisogna essere senza scrupoli, saperlo gestire, e coniugare tutto ciò, parallelamente, con la politica ufficiale che deve abbracciare gli interessi nazionali. Non è un’operazione da poco.

    L’altra difficoltà risiede nel fatto che, al momento, il gruppo non sembra essere intenzionato ad instaurare un dialogo. Ad Al Baghdadi interessa convincere e poter contare sul sostegno del mondo sunnita che si propone di accorpare, non sente alcuna necessità di dialogo con i governi occidentali.

    La contrapposizione con l’Isis è difficilmente risolubile, sia dal punto di vista diplomatico che da quello militare: sembra che questo conflitto sia destinato ad accompagnarci ancora per lungo tempo.

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