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    Iran: cosa può accadere ora dopo la morte del presidente Raisi e del ministro degli Esteri Abdollahian

    La Guida Suprema della Rivoluzione Islamica, l'ayatollah Ali Khamenei. Credit: AGF
    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 20 Mag. 2024 alle 13:56 Aggiornato il 20 Mag. 2024 alle 13:59

    La morte del presidente Ebrahim Raisi e del ministro degli Esteri dell’Iran Hossein Amir-Abdollahian, deceduti ieri in un incidente in elicottero insieme ad altri tre funzionari della Repubblica Islamica e ad altrettanti membri dell’equipaggio, ha fatto sorgere diverse preoccupazioni sul futuro del regime degli Ayatollah.
    Gli uffici ricoperti dalle due vittime eccellenti sono già stati rilevati dal primo vicepresidente Mohammad Mokhber, nominato presidente della Repubblica ad interim, e dal viceministro degli Esteri ed ex negoziatore sul dossier nucleare, Ali Bagheri, che guiderà la diplomazia di Teheran fino alla formazione del nuovo governo che uscirà dalle prossime elezioni previste entro 50 giorni.
    D’altronde, già prima della conferma del decesso di Raisi, la Guida Suprema della Rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei, aveva rassicurato il popolo iraniano, affermando che “non ci saranno sconvolgimenti negli affari del Paese”.
    Dichiarazioni a cui hanno fatto eco le parole del governo di Teheran, che in una nota diramata subito dopo la diffusione della notizia della morte di Raisi ha assicurato “alla nazione che, con l’aiuto di Dio e il sostegno del popolo, non ci sarà il minimo turbamento nell’amministrazione del Paese”. Eppure la scomparsa di Raisi e Abdollahian lasciano un vuoto che va al di là delle loro cariche.

    Morte di un candidato in pectore
    Raisi è il secondo presidente iraniano a morire in carica: il primo fu Mohammad Ali Rajai, ucciso in un attentato dopo soli 15 giorni di presidenza. Il filo che collega le due morti porta all’attuale Guida Suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei.
    A Rajai, secondo presidente eletto della Repubblica islamica dopo l’impeachment di Abolhassan Banisadr, deposto dal Parlamento per volontà dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, succedette in carica proprio Khamenei, che servì per due mandati fino al 1989.
    Allora, dopo la morte del fondatore della Rivoluzione, fu nominato nuova Guida Suprema dall’Assemblea degli Esperti in luogo del prescelto ayatollah Hossein-Ali Montazeri, già allontanato da Khomeini e poi destituito per essersi opposto al massacro di alcuni oppositori nel 1988.
    Un eccidio di cui Montazeri, morto nel 2009, accusava proprio Raisi, indicato come uno dei tre componenti del “comitato della morte” voluto da Khomeini per processare gli oppositori politici alla fine della guerra con l’Iraq. Allora, da giovane procuratore di Teheran, Raisi era membro di una commissione che supervisionava l’esecuzione di centinaia di prigionieri politici nella capitale, un ruolo per cui nel 2019 sarà sanzionato dagli Stati Uniti. Secondo le stime di Amnesty International infatti, in quegli anni furono circa cinquemila gli oppositori uccisi dal regime.

    Un curriculum che ha permesso a Raisi di entrare nelle grazie di Khamenei e che ha favorito la sua ascesa non solo politica ma anche all’interno dei ranghi del clero sciita. Nato nel 1960 da una famiglia religiosa della città santa di Mashhad, l’ormai defunto presidente iraniano perse il padre all’età di soli cinque anni ma decise di seguirne le orme come studioso di diritto islamico.
    Da giovane studente in un seminario dell’altra città santa sciita di Qom, dapprima partecipò alle proteste contro lo Scià e alla rivoluzione del 1979 e poi sfruttò le conoscenze con il clero per entrare nei ranghi della magistratura. Nominato procuratore di Karaj nel 1981 e quindi di Hamadan, nel 1985 diventa viceprocuratore di Teheran a soli 25 anni.
    Nel 1994 viene nominato capo dell’Ufficio Nazionale di Ispezione, un organo anti-corruzione, e dieci anni dopo diventa vicepresidente della Corte Suprema, finché nel 2014 Khamenei, che ne apprezza il conservatorismo, lo nomina Procuratore generale e poi cinque anni dopo Presidente della Corte Suprema. Intanto nel 2016 entra a far parte dell’Assemblea degli Esperti, l’organo deputato a scegliere la Guida Suprema, di cui dal 2023 diverrà vicepresidente. Insomma una carriera folgorante che lo porterà anche in politica.
    Nel 2017 perde le presidenziali contro il presidente riformista uscente Hassan Rouhani, che ottiene oltre il 58 per cento dei voti contro il 39% dello sfidante, ma quattro anni dopo vince le elezioni con il 72 per cento delle preferenze. I riformisti però praticamente non partecipano a causa di una serie di limitazioni legali e così Raisi sale allo scranno più alto della Repubblica islamica nelle consultazioni presidenziali meno partecipate della storia iraniana, in cui l’affluenza non ha superato il 48 per cento. Un dato peggiorato alle politiche dello scorso 1 marzo quando solo 4 iraniani su 10 sono andati a votare per il rinnovo del Majles (il Parlamento).

    Per gli oppositori, le politiche promosse da Raisi, non ultima la stretta sul velo obbligatorio per le donne e le leggi sulla moralità che hanno provocato centinaia di morti e mesi di proteste, hanno contribuito a questo calo della partecipazione. Per gli stessi motivi invece, l’ormai defunto presidente era visto come un possibile successore dell’85enne Khamenei per il ruolo di Guida Suprema, che ora dovrà trovarsi un altro delfino. Oppure no.
    Diversi commentatori discutono da anni se il figlio dell’Ayatollah, Mojtaba Khamenei, possa succedere al padre dopo la sua morte, un’ipotesi che non avrebbe precedenti storici, visto che nemmeno il figlio e storico assistente di Khomenei, Ahmad, fu mai preso in considerazione per tale ruolo.
    A rigore poi, pur ispirandosi al principio della velayat-e faqih (letteralmente: “la tutela del giurista-teologo”) proposta da Khomeini, la Costituzione iraniana non impone che l’ufficio della Guida Suprema sia occupato da una sola persona (tra l’altro coadiuvata da un Consiglio di Vigilanza). Quindi, a meno di sconvolgimenti istituzionali, è anche possibile che a succedere a Khamenei possano esserci più figure dell’alto clero sciita iraniano. Ma torniamo alla politica del presente.

    L’interim
    Il ruolo di Raisi intanto è già stato assunto dal primo vicepresidente Mohammad Mokhber, nominato presidente della Repubblica ad interim, ai sensi dell’articolo 131 della Costituzione della Repubblica Islamica. La norma prevede che, “in caso di morte, licenziamento, dimissioni, assenza o malattia di durata superiore ai due mesi del Presidente”, spetta “al primo vicepresidente assumere i poteri” di capo dello Stato, un processo che però deve avere “l’approvazione della Guida Suprema” Khamenei, che questa mattina ha dato il suo assenso alla successione.
    Nato nel 1955 a Dezfoul, nella provincia sudoccidentale del Khuzestan, come Raisi che l’ha nominato suo vice nel 2021, l’attuale presidente ad interim è considerato un uomo vicino all’Ayatollah Khamenei. A differenza del defunto però, Mokhber non è un giurista né un religioso.
    Pur avendo già ricoperto diversi incarichi ufficiali, l’uomo ha guidato diverse aziende e dal 2007 presiede la Fondazione dell’Ordine dell’Imam (Setad), fondata alla fine degli anni Ottanta per gestire le proprietà confiscate in seguito alla Rivoluzione del 1979 e diventata un potente conglomerato economico, con interessi in diversi settori, compresa la sanità.
    Per il suo ruolo Mokhber è stato anche sanzionato dall’Unione europea, che nel 2010 l’ha inserito in un elenco di individui e organizzazioni accusate di essere coinvolte in “attività di sviluppo nucleare o di missili balistici”, un provvedimento ritirato però dopo soli due anni.

    Il principale obiettivo del suo mandato ad interim sarà organizzare le prossime elezioni presidenziali entro metà luglio. La Costituzione iraniana prevede infatti che un Consiglio “composto dal presidente del Parlamento, dal Procuratore generale e dal primo vicepresidente è tenuto ad organizzare l’elezione di un nuovo presidente entro un termine massimo di 50 giorni”.
    In questo senso, sarà chiamato a risolvere due problemi urgenti. Il primo riguarda la scarsa affluenza, alimentata dalla progressiva esclusione di ogni forma di dissenso dalle elezioni e dalle continue violenze contro i manifestanti scesi in piazza dopo la morte di Mahsa Amini, la ragazza di origini curde uccisa nel settembre 2022 dalla polizia morale per non aver indossato correttamente il velo.
    Il secondo riguarda invece la mancanza di un candidato conservatore. Dal 1981, esclusi il deposto Banisadr e l’ucciso Rajai, tutti i presidenti iraniani si sono candidati e hanno ottenuto alle urne un secondo mandato. Con la scomparsa di Raisi però, il suo partito l’Associazione dei Chierici Militanti (fondato tra gli altri da Khamenei), è preso alla sprovvista non avendo nemmeno discusso un possibile candidato alternativo.
    La scelta, affidata – come tutte la decisioni strategiche prese in Iran – alla Guida Suprema, potrebbe ricadere proprio su uno dei tre componenti del Consiglio che guiderà la transizione, tutti scelti da Khamenei: lo stesso presidente ad interim, Mohammad Mokhber; l’attuale Procuratore generale Gholam-Hossein Mohseni-Eje’i, un giurista dello stampo di Raisi; o il presidente del Parlamento, ex generale del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica ed ex sindaco di Teheran, Mohammad-Bagher Ghalibaf. Comunque andrà a finire, la decisione andrà presa nell’arco del prossimo mese in cui le forze conservatrici dovranno adattarsi a trovare una nuova figura che le rappresenti.

    Cosa cambia in Medio Oriente
    La scomparsa di Raisi non modificherà probabilmente l’assetto né la politica della Repubblica Islamica, come notato questa mattina anche dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che a Palazzo Chigi ha riunito diversi ministri e i vertici dell’intelligence: “Se si vuole essere realisti non vedo che ci saranno delle grandi modifiche all’interno del regime iraniano, è difficile aspettarsi che ci siano grandi rivoluzioni”.
    D’altronde, secondo la Costituzione iraniana, il presidente della Repubblica ha un ruolo più che altro di coordinamento del governo. Egli presiede il Consiglio dei ministri e ne “supervisiona il lavoro”, oltre ad adottare “tutte le misure necessarie per coordinare le decisioni” dell’esecutivo, a determinare l’agenda e le politiche del governo e ad attuare le leggi. Insomma, un ruolo non certo marginale ma non centrale come quello affidato alla Guida Suprema, che invece opera tutte le decisioni strategiche e ha il potere di veto su qualunque provvedimento.

    Simile discorso per l’avvicendamento al ministero degli Esteri. La scomparsa di Abdollahian, considerato vicino alle Guardie della Rivoluzione Islamica e in particolare al generale Qassem Soleimani, ucciso a Baghdad nel gennaio 2020 da un raid Usa, non dovrebbe avere grosse ripercussioni sulle politiche di Teheran. Il defunto ministro iraniano era considerato uno degli uomini di collegamento tra la diplomazia di Teheran e i suoi alleati nella regione (non a caso, quando muore Soleimani Abdollahian è di stanza in Iraq).
    Durante l’attuale guerra in corso nella Striscia di Gaza però, il ministro è stato la voce e il volto di tutti gli incontri e i colloqui sia con gli alleati dell’Iran, che con i capi delle diplomazie arabe e occidentali che cercavano un canale utile a Teheran per calmare le tensioni. In questo senso, la sua sostituzione con un uomo come Ali Bagheri, suo viceministro dal 2021, vice segretario del Consiglio supremo di sicurezza nazionale dal 2007 al 2013 nonché negoziatore internazionale per il dossier nucleare, si inserisce nel medesimo solco di apparente intransigenza e disponibilità a trattare, soprattutto se lontano dalla luce dei riflettori.

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