Dalle foto alle vignette ai disegni: Ahou Daryaei, studentessa di letteratura francese di Teheran, e le sue braccia conserte hanno fatto il giro del mondo. Una figura giovane, vigorosa, in pace con se stessa, è pericolosa per la Repubblica islamica. Sabato il suo gesto di togliersi i vestiti, prorompente e pacifico allo stesso tempo, è stato condiviso sui social migliaia di volte. Nei video si vede Daryaei che passeggia seminuda su un marciapiede davanti al campus universitario, e poi ancora su un muretto mentre intorno scorrono donne velate fino ai piedi. E poi ancora Ahou Daryaei costretta a salire su una macchina bianca che si ferma all’improvviso per strada e la fa sparire.
Riavvolgiamo il nastro. Due anni fa scoppiò la rabbia del movimento che dal settembre 2022 sfilò in strada al grido di “Donna, vita, libertà”. Cosa sta succedendo oggi nelle piazze in Iran? Ne abbiamo parlato con Saghar Khaleghpour, illustratrice di origini iraniane e autrice assieme a Lelio Bonaccorso del graphic novel “La mia seconda generazione” edito da Feltrinelli.
Saghar, la morte di Mahsa Amini – che nella passata intervista hai definito “la punta dell’iceberg di quello che il popolo iraniano vive dal lontano 1979” – e le successive proteste. Qual è stata la reazione del governo iraniano? Cosa è accaduto nei mesi successivi?
«Il governo iraniano è stato molto duro dopo le proteste, ma era una reazione scontata visto il rischio di un eventuale rovesciamento dell’attuale impalcatura dittatoriale. La reazione, oltre a condannare il più velocemente possibile i manifestanti, è stata quella di fermare completamente il dissenso che si stava diffondendo a macchia d’olio. Per farlo hanno inasprito le pene per le donne che tolgono l’hijab in pubblico con un’operazione chiamata Nour e inasprito le pene per i manifestanti. Hanno aumentato l’entità delle multe pecuniarie per chi viene fermato, inserito pene detentive più lunghe, restrizioni sulle opportunità lavorative e scolastiche».
Il “velo”, elemento contraddittorio che ha visto nel 1979, anno della rivoluzione Khomenista, il suo ritorno nella società iraniana, fino a oggi. L’ennesima protesta. Della storia recente di Ahou Daryaei ci sono al momento due versioni. Molti attivisti e alcuni giornali raccontano che Daryaei è stata maltrattata dalla sicurezza dell’università perché non adeguatamente vestita e – a quel punto – avrebbe reagito togliendosi tutto. C’è chi invece – sempre sui social – condivide un altro racconto legato a un articolo della BBC farsi che riporta le testimonianze di due studenti. Secondo loro, Daryaei ha problemi psichici e prima di spogliarsi non avrebbe avuto nessun incidente con la sicurezza. Che idea ti sei fatta?
«Il regime diffonde sempre falsità su persone e situazioni dove risulta che il loro controllo non sia più efficace. Non è la prima donna ad essere ritenuta inferma mentalmente dalle autorità solo perché in rottura con le imposizioni religiose. Purtroppo dove il loro controllo non è più efficace adducono l’accusa di infermità mentale per annientare le persone sotto tutti i punti di vista, specialmente verso l’opinione pubblica. Dobbiamo pensare che quella iraniana è una società dove la pressione sui divieti è molto forte e il controllo viene percepito pesantemente dalla popolazione. Dove la personalità degli individui non può e non riesce ad esprimersi, capita spesso che salti il tappo delle apparenze e che le persone abbiano delle reazioni molto forti e fuori dall’ordinario. La mia idea è che Ahou Daryaei non abbia problemi psichici, anche perché è una donna che frequenta regolarmente l’università, ma ritenendola mentalmente inferma facciamo il gioco del regime non focalizzandoci sulla cosa veramente importante. Sempre più persone stanno rompendo il muro del silenzio alzando la testa davanti ai loro oppressori».
La repressione della Repubblica islamica rimane al centro anche di questa storia. Così come riportato anche dalle attiviste e dagli attivisti tra cui la Premio Nobel Narges Mohammadi. Quanto è stato potente, per te, il gesto di Ahou Daryaei?
«Secondo me il gesto di Ahou Daryaei è stato un gesto probabilmente partito d’impulso dall’esasperazione avvertita dall’ennesimo controllo sul codice d’abbigliamento. Trovo sia un gesto forte, specie in una società, quella della Repubblica islamica, che percepisce come “nuda” una donna con qualche ciocca di capelli fuori dal velo. In questo caso la sua nudità è ancora più ridondante. In molti non sanno che un gesto del genere segnerà pesantemente la vita di Ahou, sempre che esca viva dal manicomio in cui è stata portata e tenuta in una camera di sicurezza».
Come stanno raccontando l’episodio i media iraniani?
«Come tanti iraniani non guardo i media trasmessi dall’Iran perché sono propaganda del regime. Ho comunque avuto modo di leggere qualcosa e il filone che seguono è quello di una donna disturbata mentalmente che ha bisogno di cure pesanti, ovviamente non parlano di gesti di ribellione».
Hai scritto un graphic novel autobiografico parlando della tua storia di italiana di seconda generazione, ma anche di diritti e di donne, le donne della tua famiglia. Come vedi il percorso di emancipazione delle donne iraniane oggi?
«Il percorso delle donne iraniane è un percorso molto difficile, fatto soprattutto di possibilità negate, ma come le donne della mia famiglia mi hanno insegnato bisogna insistere. Le donne hanno la forza e la costanza per fronteggiare il regime, anche se ci vorrà del tempo. Il primo posto dove l’emancipazione trova terreno fertile è nel proprio nucleo famigliare, le donne iraniane rimangono emancipate anche se le leggi non giocano a loro favore. Sono donne istruite, lavoratrici e che gestiscono la famiglia anche dal punto rivista economico. Raccontando la mia storia e quella delle mie zie ho delineato alcuni aspetti che rivedo nei comportamenti sociali femminili iraniani. Sono fermamente convinta che questo percorso intrapreso dalle donne iraniane continui perché è la mentalità ad essere cambiata dopo la morte di Mahsa Amini e il silenzio allungherà solamente il percorso verso la libertà».
La parola “speranza” in lingua farsi?
«Arezu, quella non ci manca mai!»