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    Se in Iran una donna si dà fuoco perché non può entrare allo stadio, il problema è anche nostro

    Di Laura Melissari
    Pubblicato il 11 Set. 2019 alle 14:50 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 14:51

    Se in Iran una donna si dà fuoco perché non può entrare allo stadio, il problema è anche nostro

    Sahar Khodayari è morta. È morta per un diritto che visto da qui sembra qualcosa di piccolo, quasi da meritarsi un sorriso e che invece dietro nasconde un privazione di libertà che ci riguarda molto di più di quello che crediamo se è vero che non siamo veramente liberi finché c’è qualcuno non libero in giro per il mondo. Lo scorso 12 marzo Sahar aveva deciso di sfidare il divieto d’ingresso per le donne di entrare allo stadio che in Iran è in vigore dal 1981 ma un selfie che aveva inviato alla sorella le è stato fatale.

    Il travestimento da uomo non è bastato per evitarle il processo e la condanna a sei mesi di reclusione per oltraggio al pudore. Le è stata fatale la sua fede calcistica per l’Esteghlal, il club di Teheran che milita nella massima divisione e che è allenato dall’italiano Andrea Stramaccioni (bloccato all’aeroporto qualche giorno fa per la scadenza del suo visto turistico). In Iran una donna non può andare allo stadio da quando la rivoluzione islamica con a capo Ruhallah Khomeynī decise nel 1981 che non era buona educazione per una donna assistere a una partita di calcio. Tutto questo nonostante l’Iran da anni si sforzi per mostrare una facciata moderna e liberale, istituendo ad esempio un settore per sole donne in occasione della finale della scorsa Champions League asiatica o permettendo alle donne di seguire la nazionale in trasferta in Russia negli ultimi mondiali.

    Certo la morte di Sahar ha riacceso la polemica nel Paese e il capitano della nazionale Masoud Shojaei non ha usato mezzi termini condannando “il retaggio medioevale che tiene le donne fuori dagli stadi e crea conseguenze drammatiche”. Sempre Shojaei, in occasione dell’ultimo mondiale, aveva sottolineato come “per la prima volta mi possono vedere giocare dal vivo mia madre e le mie sorelle”. 

    La FIFA da tempo lavora per aprire gli stadi alle donne e la battaglia per le libertà femminili gode di appoggio internazionale ma la sentenza sul caso Khodayari dimostra che la strada è ancora lunga a dispetto delle previsioni degli ottimisti. E poi c’è il fatto che tutto questo in fondo interessa anche a noi, che ci sentiamo così lontani, e che ci godiamo il calcio pensando che possa e debba essere anche veicolo di libertà: una donna che si uccide dopo una condanna così ingiusta è un problema che interessa inevitabilmente tutti. Anche perché i diritti spesso sono quelli degli altri. Finché non arrivano a toccare anche i nostri.

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