L’attacco con missili e droni portato avanti dall’Iran contro Israele nella notte tra il 13 e il 14 aprile rappresenta prima di tutto il momento in cui lo scontro per procura che Teheran e lo Stato portano avanti da decenni è diventato quanto di più simile a uno confronto diretto tra i due Paesi.
Scontro frontale
Fino a quel momento le due parti in causa non si erano mai risparmiate colpi, con attacchi compiuti talvolta in maniera ibrida, altre attraverso alleati regionali o in luoghi terzi, come nel caso dell’attacco compiuto da Israele a Damasco lo scorso primo aprile in cui è stato ucciso il comandante di primo piano delle Guardie della Rivoluzione Mohammed Reza Zahedi. Proprio per questo salto di qualità Israele ha deciso di rispondere, all’alba del 19 aprile, colpendo una base militare direttamente nel suolo iraniano.
L’attacco di Damasco, che aveva ucciso una figura iraniana di alto profilo colpendo una sede diplomatica di Teheran (per quanto Israele neghi quest’ultima circostanza parlando di edificio annesso all’ambasciata ma non parte integrante di essa), aveva portato l’Iran ad annunciare vendetta, in una maniera non troppo diversa da quando all’inizio del 2020 aveva avvertito che avrebbe risposto agli Stati Uniti dopo l’uccisione a Baghdad del generale della forza d’elite Quds, Qasem Soleimani. Se in quell’occasione la reazione iraniana fu un lancio di missili contro la base statunitense di Al Asad nel nord dell’Iraq, stavolta invece la Repubblica islamica ha deciso di rispondere lanciando una pioggia di droni e missili direttamente contro il territorio di Israele, contando anche sul sostegno di una serie di alleati regionali, Houthi in primis.
Una rappresaglia annunciata, comunicata in anticipo all’avversario, e che per questa ragione probabilmente non si aspettava di cogliere troppo impreparato lo Stato ebraico e puntava più, semmai, a poter rivendicare un successo di fronte all’opinione pubblica interna. Eppure il raid è verosimilmente andato meno bene del previsto: solo l’uno per cento dei circa trecento tra missili e droni lanciati hanno superato le difese messe in azione da Israele e dai suoi alleati, causando lievi danni ad alcune basi militari. Probabilmente meno di quanto Teheran si aspettava, a fronte di una simile quantità di materiale bellico messa in campo, superiore a qualsiasi singolo attacco lanciato dalla Russia contro l’Ucraina (il cui territorio è circa ventisette volte più grande di quello israeliano) dal 24 febbraio 2022 a oggi.
Alleati
Elemento tutt’altro che secondario è poi il sostegno non solo politico, ma anche militare, ricevuto da Israele nel difendersi dall’attacco iraniano. Lo Stato ebraico si trova da mesi in una situazione politicamente difficile, sempre più isolato a livello internazionale per il modo in cui sta conducendo le operazioni belliche a Gaza, ricevendo da più parti pressioni per cessate il fuoco, tregue umanitarie e cambi di passo che raramente hanno ottenuto riscontri, contribuendo al rischio di un cambio di atteggiamento verso il Paese da parte di alcuni governi.
Durante l’attacco iraniano, tuttavia, si sono attivati a supporto di Israele gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia e anche la musulmana Giordania che hanno messo in campo missili e aerei per dare il proprio sostegno nell’abbattere l’arsenale lanciato da Teheran e dai suoi alleati regionali.
Invito alla calma
Non è un caso che, stando a quanto reso noto da più media nelle ore successive, a fermare un’immediata risposta israeliana contro l’Iran sarebbe stato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che avrebbe invitato Netanyahu a prendersi quella che, a tutti gli effetti, Israele può vedere come una vittoria contro uno degli attacchi più massicci mai visti in Medio Oriente negli ultimi anni. Fermando così una risposta immediata che avrebbe rischiato di portare a un’escalation che gli Stati Uniti, che da anni vorrebbero spostare le attenzioni verso il Pacifico e quest’anno dovranno anche affrontare una cruciale tornata elettorale, vorrebbero evitare più di altri, tanto più mentre il conflitto in Ucraina non dà segni di sosta.
L’ora più buia
Il sostegno tangibile degli alleati e un risultato diplomaticamente e militarmente positivo hanno frenato l’immediata reazione israeliana che avrebbe rivelato, tra le altre cose, quanto uno scontro armato con le tecnologie odierne potrebbe essere estremamente rapido e consumarsi nel giro di poche ore, ma non ha frenato la volontà israeliana di una risposta: agli occhi di Paese che dalla sua nascita convive con realtà della stessa regione che ne vogliono la morte, non dare alcun cenno di reazione a un attacco diretto di tale portata risulterebbe un cenno di debolezza, e la reazione, mirata e dai connotati simbolici, è arrivata all’alba del 19 aprile. Ma questo è un altro discorso.
Nella notte tra il 13 e il 14 aprile si sono palesati numerosi fatti che hanno trasportato dottrine militari dai manuali alla realtà e hanno mostrato le capacità militari di Israele e Iran, nonché la solidità del sostegno allo Stato ebraico anche in un momento diplomaticamente così complesso.
Ma non va dimenticata una questione: tutto questo sta avvenendo in uno dei momenti più tesi e pericolosi della storia recente, uno di quei momenti in cui una scintilla può trasformarsi in un incendio. Al fianco delle analisi sulla capacità militare e diplomatica dei Paesi non si possono non prendere in considerazione i rischi concreti per la sicurezza globale che stiamo correndo in questo tempo. E su cui eventi di tale portata rischiano di gettare solo un’ampia quantità di benzina.
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