Presidente Rama, in Italia, dall’inizio del conflitto, secondo tutti i sondaggi la maggioranza degli italiani era e rimane contraria al conflitto e all’invio delle armi.
«Lo so bene. Ho seguito da vicino, e con attenzione, questo grande dibattito che è in atto nel vostro Paese, perché per noi è naturale seguire la politica italiana».
E che impressione ne ricava?
(Sorride). «Amo guardare i talk show e leggere i giornali italiani: è come guardare nel cortile di casa di un vicino più grande e più ricco per capire meglio cosa succede. Capisco benissimo, fra l’altro, la frustrazione che avverto, anche nei dibattiti pro o contro l’intervento, pro o contro gli aiuti militari, in tutti coloro che sono critici con la guerra».
E come appare invece questo conflitto, visto dall’Albania, e in particolare da Edi Rama?
«La mia percezione è che nei vostri dibattiti tutti dicono di essere a favore dell’Ucraina, ma molti poi aggiungono di essere contrari all’invio delle armi, perché questo produce più guerra e più distruzione».
E non è così?
«Capisco che dal punto di vista logico sia così. Comprendo il ragionamento di chi sostiene posizioni di pacifismo più intransigente. Ma il punto di questo anno di guerra è che non mi è chiaro quale sia l’alternativa agli aiuti all’Ucraina. Cos’altro si può fare?».
Mi spieghi meglio.
«Io non capisco, per esempio, come si possa chiedere a un Paese invaso che si ritrova in guerra, di essere pacifico come Gesù Cristo che quando si riceve uno schiaffo chiede ai suoi fedeli di porgere l’altra guancia».
Lei in questa crisi non vede spazio per principi evangelici.
«No, nessuno. È riconosciuto il diritto di un popolo e di un Paese di esistere in quanto tale, e di poter difendere la propria indipendenza. Quindi io davvero non so, oggi, quale possa essere l’alternativa al sostegno all’Ucraina. Perché porgere l’altra guancia, nel mondo contemporaneo, è qualcosa che puoi permetterti di dire solo se non sei tu l’aggredito. Mentre è del tutto evidente che se si trattasse del tuo Paese e del tuo popolo, ovviamente porgere l’altra guancia sarebbe un principio molto più difficile da mettere in pratica».
Mi faccia un esempio.
«Questa guerra produce una situazione abbastanza insostenibile dal punto di vista del carico di dolore e di atrocità che implica nei confronti dei civili. Immaginiamo per esempio cosa accadrebbe in Italia, se si verificasse qualcosa di simile in un territorio conteso. Immaginiamo dunque che un giorno arrivassero gli austriaci con il loro esercito, varcassero i confini, e che occupassero militarmente il Nord Italia, ad esempio un pezzo di Alto Adige. A quel punto domando: tu che cosa fai? Come reagiscono un governo e un Paese a una invasione militare? È questo il punto con cui bisogna confrontarsi, per tutti quanti».
Cosa la colpisce di più in quello che sta accadendo in Ucraina?
«La natura stessa del conflitto. Perché non solo si rivendica il governo di una porzione di uno Stato, non solo si combatte per il controllo di un provincia o di un’altra. Ma più radicalmente, fin dall’inizio del conflitto, i russi negano la possibilità di un Paese e di un popolo di esistere in quanto tali».
Incontro Edi Rama nel suo ufficio a Tirana. Il capo del governo albanese, leader indiscusso del partito socialista è carismatico, ironico, parla un italiano perfetto, con un uso del lessico ricercato e a tratti addirittura forbito. Per raccontare la sua storia ci vorrebbe una serie di Netflix: uomo di formazione intellettuale, figlio di uno scultore, pittore poliedrico, si era affermato all’estero e viveva a Parigi dove aveva successo come artista. Invece – alla fine del regime socialista – Rama sceglie di tornare in patria per una candidatura in un piccolo movimento libertario, che lo porta alla politica attiva. Diventa ministro della Cultura prima e sindaco di Tirana poi. Entra nel partito socialista con la sua formazione e ne diventa leader. Senza di lui, la capitale dell’Albania non sarebbe la città che è oggi. Rama cambia radicalmente l’impostazione urbana pianificata dal socialismo reale, promuove la riqualificazione delle periferie, demolisce per ricostruire, attrae progetti internazionali. Invita gli architetti di mezzo mondo (soprattutto italiani) a immaginare una nuova capitale. Riconverte opere già edificate, come la famosa piramide di Enver Hoxa. Adesso l’Albania ha un nuovo volto, Tirana è un cantiere perenne, dove si incrociano nuova architettura e recupero urbano. Lui, Rama, sorride: «I colori nelle periferie, furono un’arma a basso costo per dare subito un forte segnale di cambiamento. Ma ogni giorno, la prima cosa che mi dà soddisfazione nel mio lavoro è immaginare che il nostro Pil cresce. E che il reddito degli albanesi sale di duemila euro».
Quando entri nell’ufficio di Edi Rama le prime cose che saltano all’occhio sono la carta da parati coloratissima e i pennarelli Pantone sul tavolo da lavoro. Poi, quando ti avvicini ti accorgi che i colori sulla parete, sono quelli dei mostri che il capo del governo disegna per distrarsi: «Durante certe infinite riunioni protocollari che si protraggono per ore, se non potessi usare le mani, credo che impazzirei». Sull’attaccapanni c’è una maglia del centravanti della Roma, Paulo Dybala. «Me l’ha regalata quando sono venuti per la finale di coppa», ricorda.
E il bilancio sul primo anno di guerra?
(Sospira). «È un giudizio complesso, soprattutto guardando le cose da questo angolo di mondo».
Ha parlato degli italiani. Ma qual è stato invece il sentimento degli albanesi di fronte alla guerra?
«Il nostro punto di vista è totalmente diverso dal vostro su questo tema».
Per quale motivo?
«In primo luogo per un motivo storico. Il nostro punto di vista, non va mai dimenticato, è quello di un Paese che è cresciuto fuori dal mondo occidentale. E in Albania, come è noto, il nostro regime, guidato da Enver Hoxa un giorno decise di rompere ogni rapporto con l’area occidentale e di scegliere “il campo di Stalin”».
E questo ha prodotto delle cicatrici che esistono ancora oggi.
«Noi abbiamo avuto la terribile esperienza di un comunismo reale che è sopravvissuto a oltranza, che ha cercato di resistere anche alla caduta del muro. Quella di un regime che aveva trasformato il nostro Paese nella Corea del Nord d’Europa! Tutto questo conta molto».
Vuol dire che quella storia dispiega ancora oggi i suoi effetti di lungo periodo?
«L’Albania autarchica del socialismo reale era in conflitto con l’Occidente, ovviamente, ma anche con la Russia».
Il che ha prodotto un lunghissimo isolamento.
«Esatto. Questa scelta di fondo ha significato, sul piano politico, che se nel resto dei Paesi del blocco di Varsavia le statue di Stalin iniziarono a essere deposte o abbattute fin dall’inizio degli anni Sessanta, con il primo disgelo prodotto della stagione di Crusciov, bisogna invece sapere che, qui da noi, tutte le statue di Stalin rimasero in piedi, al loro posto senza che nessuno le toccasse, fino al 1990».
Perché?
«Perché questo era il desiderio del nostro regime. Quando i Paesi dell’ex patto di Varsavia iniziarono a superare il peso della Guerra fredda imboccando tutti, pur con diverse sfumature, la strada di quella linea diplomatica che prese il nome di “coesistenza pacifica”, Hoxa scelse di rifiutare l’idea di una distensione tra i blocchi, respingendo con sdegno quella linea. Ovvero, decise di perseguire una strategia anacronistica oltre la caduta del muro di Berlino, che resistette sino alla fine del nostro regime».
E quale è la prima conseguenza di questa persistenza sul sentimento del suo Paese, secondo lei?
«Diciamo che è anche per questi motivi storici che noi albanesi ancora oggi abbiamo una relazione – come dire? – molto fredda con la Russia».
Si riferisce alla battaglia politica?
«Nooo: parlo di un’opinione diffusa che si può verificare non tanto a livello politico o governativo, non certo per la scelta di un partito o di un altro, di questa o di quella parte. Ma piuttosto di una convinzione che cresce a un livello popolare più profondo, manifestandosi con la forza di un sentimento comune condiviso».
E questo sentimento vale sia per la memoria dell’Unione sovietica di allora, che per la percezione della Russia contemporanea?
«Non c’è dubbio. Putin non è molto amato dagli albanesi, anche e soprattutto per questi motivi che abbiamo appena ricordato».
Cosa intende?
«Lei mi ha citato un sondaggio sulle opinioni degli italiani sulla guerra? E allora io gliene voglio citare uno che ricordo, ancora più sorprendente, sulle opinioni dei cittadini in Albania dopo lo scoppio del conflitto».
Quale?
«La popolarità del presidente della Federazione Russia, tra gli albanesi, è dello zero virgola sette per cento. Putin, cioè, piace allo 0,7 per cento dei nostri cittadini!».
E gli altri?
(Sorride). «Per il 99 per cento degli albanesi Vladimir Putin è… uno che non sta bene».
Cosa ha capito lei in più, sulle ragioni di questa guerra, a distanza di un anno?
(Sorride). «Non ho informazioni riservate che provengano da servizi di intelligence, se era questo che voleva sapere».
No, non intendevo domandarle questo tipo di rivelazioni…
«Allora posso offrirle un retroscena diverso, che però mi colpì molto, alla vigilia del conflitto. E che ancora oggi mi fa porre delle domande».
Quale?
«Avevo parlato, alla vigilia dell’invasione, con uno dei governanti di un Paese di confine dell’Ucraina di cui ovviamente non posso farle il nome. E questa persona mi aveva detto, testualmente, sulla base di fonti dirette: “Lo sai che Putin ha investito 25 miliardi di euro per preparare il terreno del cambio di regime da ottenere con l’intervento?”.
E cosa intendeva? Armamenti? Carri armati?
«Nooo… soldi spesi per oliare la macchina del consenso, i partiti, gli oligarchi. Una operazione di intelligence economica. Ancora oggi ripenso all’esattezza di quella confidenza».
Perché?
«In primo luogo perché, quell’analisi mi fu fatta mentre molti dei più importanti osservatori, anche in Occidente, negavano la possibilità dell’invasione. Invece fu quella la prima conferma che io ebbi, ben prima del febbraio 2022 che i russi avrebbero attaccato, che c’era un piano preordinato…».
E poi?
«Poi perché ricordo bene il dialogo che ebbi, subito dopo queste parole, con la mia fonte».
Quale?
«Più o meno questo. Io dicevo: possono essere 25 o 100 miliardi, nulla cambierà, perché conosco bene come sono fatti gli ucraini».
Ovvero?
«Era evidente che quella fosse una cifra enorme. Ma era evidente che Putin sottovalutasse i suoi avversari e che non capisse nulla della psicologia del popolo che aveva deciso di invadere».
Che cosa pensava lei.
«Io in sostanza ero convinto, ben prima che scoppiasse la guerra, che gli ucraini non si sarebbero fatti comprare e che non ci sarebbe stato nessun cambio di regime che permettesse a Mosca di installare un governo amico. Questo grave errore di comprensione iniziale, come è evidente, ha influenzato enormemente il corso della guerra nei mesi successivi, fino ad oggi».
Ovvero: il primo obiettivo era il golpe.
«Senza dubbio: ed è un obiettivo fallito perché la percezione della realtà sul campo era del tutto alterata».
Ha più riparlato con la sua fonte?
«Di questo tema no. Ma posso assicurarle che l’informazione era giusta, è formulata in tempi non sospetti».
E lei non ha paura dell’escalation nucleare, se il conflitto in Ucraina dovesse durare? Tra i sui concittadini non c’è questo timore?
«Guardi, io temo che sia proprio su questa paura che Vladimir Putin oggi sta giocando la sua scommessa tattica, e anche politica».
Ciò non significa che il pericolo non esista.
«Al contrario! È sempre su questo tema che si doveva ragionare prima e su cui si dovrà ragionare di nuovo, soprattutto dopo. Ovvero sul come garantire la pace e proteggerci dal rischio di un conflitto. Però c’è un problema».
Quale?
«Per come la vedo io è evidente che oggi questo non è possibile. Perché io – ad esempio – mi pongo il problema che Putin ha fatto questo calcolo».
Ovvero?
«Il suo ragionamento era questo: usare l’energia come uno strumento di pressione sugli Stati europei, e usare l’impennata dell’inflazione che la guerra avrebbe prodotto come un’arma non convenzionale».
Aveva già calcolato tutto, quindi?
«No. Non era possibile prevedere “tutto”, come abbiamo visto. Credo che i piani iniziali di cui parlavamo prima, siano stati tutti stravolti dal fattore imprevedibile della resistenza. Il fatto che l’Ucraina abbia retto l’urto dell’invasione militare molto meglio di quanto non si potesse prevedere a tavolino, alla viglia della crisi, ha cambiato i termini della partita».
Eppure c’erano diversi Paesi della Nato che si preparavano a un’invasione. E che hanno sostenuto l’esercito ucraino.
«È vero. Ma è vero anche che gli stessi generali americani non pensavano che il Paese sarebbe riuscito a difendersi così bene. Grazie a cosa è stata possibile questa resistenza? La risposta la conosciamo già: grazie alle armi. Io dico che Papa Francesco ha tutte le sante ragioni di questo mondo, dal suo punto di vista, di condannare la guerra in nome della difesa della pace. Ma l’Ucraina, senza dubbio, questo non può e non deve farlo».
E allora le chiedo: dopo un anno quando finirà la guerra? Come si arriva alla pace?
(Sorride e sospira). «Il bello di governare un Paese piccolo come l’Albania è che non devi prendere delle decisioni che cambiano i destini del mondo. Quindi, premesso che non sta a me dare consigli o immaginare delle soluzioni miracolose per risolvere il conflitto, vorrei dire una cosa più semplice e chiara: bisogna lavorare a una soluzione a cui si possa arrivare senza aspettare che l’Ucraina sia distrutta e senza attendere che la Russia finisca in ginocchio. Nessuna delle due cose e nemmeno entrambe insieme».
È ancora possibile?
«Io credo che questo spazio sottile tra i due fronti che si contrappongono esista, e che un accordo di pace si possa raggiungere senza abbandonare l’Ucraina. Ma voglio dire un’ultima cosa».
Quale?
«Io voglio trovare questa soluzione di pace sapendo che, se l’Ucraina non avesse resistito all’invasione, oggi ci sarebbe un grave rischio di perdere la propria sovranità».
Cosa pensa dell’Ucraina oggi?
«In questa fase non si possono fare tante domande. Loro stanno dando un contributo enorme per difendere tutta l’Europa. Se l’Ucraina non avesse retto a quell’urto la situazione oggi sarebbe completamente diversa non solo per Kiev, ma per tutta l’Europa».