Il presupposto fondamentale di ogni intervento armato è che sia chiaro l’obiettivo politico. Conseguentemente l’intervento deve essere valutato nella sua opportunità e nelle modalità in base a questa premessa che appare scontata, ma tuttavia spesso dimenticata.
La smania di interventismo dimostrata nelle dichiarazioni da parte di importanti rappresentanti dei governi americano, italiano, francese e britannico nelle ultime settimane appare solo parzialmente giustificata. Sono due le motivazioni fondamentali di questo attivismo verbale.
La prima è quella di fare pressioni sulle fazioni libiche che, piuttosto incredibilmente agli occhi occidentali, ancora non convergono verso un governo di unità nazionale e tergiversano rimpallandosi la decisione finale. Il processo politico di creazione del governo unitario va a rilento nonostante il cambio di passo di Martin Kobler.
Il parlamento di Tobruk, unico riconosciuto internazionalmente, non ha approvato la lista di ministri che il premier Serraj, incaricato di formare un governo dopo la firma dell’accordo in Marocco, ha presentato in prima istanza. Formalmente perché i ministri (trentadue) erano troppi, in realtà a causa dell’opposizione del generale Haftar, capo militare delle forze di Tobruk e grande escluso dalla lista.
La seconda è la necessità di una risposta dei governi occidentali alla crescente paura del terrorismo scaturita dagli attacchi di Parigi nel novembre scorso. Una pericolosa spirale che spinge le potenze europee a una rincorsa all’azione militare per dimostrare di non restare passivi e che innesca dinamiche competitive intra-europee che non sembrano un buon viatico a qualsiasi razionale analisi e decisione, come analizzato da Jean-Pierre Darnis su Il Foglio.
La questione non è mantenere la leadership su un’eventuale azione, come sostenuto recentemente da Vittorio Emanuele Parsi su Panorama, ma – per citare Spike Lee – “fare la cosa giusta”.
L’intervento del 2011 e la gestione della fase post-conflict non lo sono stati. L’Italia si caratterizzò allora per una rincorsa duplice, politicamente debole, all’evoluzione incontrollabile degli eventi in Libia da una parte, e alle mosse dei propri principali partner dall’altra, senza una vera e propria capacità di condizionarne le scelte o di evidenziarne i rischi. È chiaro, data la prossimità geografica della Libia e i nostri interessi, che l’Italia non si possa permettere nuovi errori.
Finora era stato considerato requisito necessario, per una possibile azione militare straniera in Libia, l’accordo tra fazioni libiche. Ma le recenti indiscrezioni sembrano fare pensare che l’Occidente stia già cambiando strategia e possa avviare i bombardamenti contro l’Isis anche senza una formale richiesta da parte di un legittimo governo libico.
Per essere sinceri la nascita di un governo unitario è una possibilità che ancora non si può escludere ma, considerato l’andamento delle trattative fino ad oggi, certamente non si può essere ottimisti.
I nodi che hanno impedito il successo del negoziato finora sono tutt’ora irrisolti, in particolare il ruolo che avrà il generale Haftar nel futuro della Libia e la perdurante ostilità all’accordo di buona parte delle milizie e delle forze politiche della Tripolitania che fanno riferimento al presidente islamista del Parlamento di Tripoli, Nuri Abu Sahmein.
Tuttavia è logico pensare che un intervento armato in un paese che faticosamente cerca di ricomporre il quadro politico possa definitivamente compromettere le residue speranze di pacificazione. È molto facile che un intervento esterno faciliti il compattamento dei gruppi islamisti attorno alla forza preponderante, lo Stato Islamico, aumentandone la portata in termini di potenziale bacino di reclutamento e facilitando una nuova campagna di propaganda.
Lo Stato Islamico in Libia è certamente una minaccia rilevante ma sinora è piuttosto contenuta. Il numero di combattenti di Isis è spesso esagerato dai media e dai libici che combattono contro gli islamisti. Fonti affidabili e piuttosto aggiornate reputano che ci siano complessivamente tra 2.700 e 3.500 miliziani che operano in Libia.
Circa 1.500-2.000 di loro agirebbero intorno a Sirte. Anche le indiscrezioni, talvolta riprese dai media con troppa facilità, che riportano di rinforzi significativi ricevuti da Boko Haram sono da considerarsi con cautela come esperti dell’International Crisis Group hanno messo in evidenza. Il contesto dell’ascesa di Isis a Sirte appare per certi versi simile a quello che ha inizialmente favorito l’IS in Iraq, ossia l’esclusione di parte della popolazione da un processo di partecipazione politica.
Non appare un caso che Sirte sia la città natale di Muammar Gheddafi e territorio di presenza della tribù Qaddafa. Dalla sua deposizione, la tribù, emarginata e ostracizzata dal governo di Tripoli, è stata anche accusata da altre milizie di connivenza con il passato regime e, talvolta, duramente colpita per questo motivo. Parte dei giovani della tribù e di seconde linee del regime, hanno quindi sposato la causa dell’Isis più per motivazioni politiche che ideologiche. Per questo il ritorno a un processo politico inclusivo (e non vendicativo) appare fondamentale.
Inoltre vi è da considerare che agli occhi dei libici un nuovo intervento esterno, anche nel caso che fosse un governo libico unitario a richiederlo, potrebbe screditare definitivamente qualsiasi governo unitario: a quel punto palesemente irrilevante o peggio “fantoccio” dell’Occidente, trovando inoltre molto rapidamente numerosi boicottatori tra i paesi arabi.
È bene ricordare che l’obiettivo finale dovrebbe essere una stabilità della Libia e ciò può essere conseguito solamente perseguendo politiche di stabilizzazione. Per questo si deve guardare non solo al quadro libico ma ancora a quello internazionale.
Per esempio è necessario rassicurare l’Egitto e trovare una modalità di scambio affinché si liberi della carta Haftar, un impedimento troppo rilevante a un processo di riconciliazione nazionale. Nonostante lo scorrere del tempo favorisca l’Isis, ci vuole pazienza e visione politica, non aggressività militare.
La palese mancanza di chiarezza sugli obiettivi dell’eventuale missione (contenimento dell’Isis, state-building, protezione della capitale, delle infrastrutture o che altro?), senza avere perfettamente chiaro verso quale fine politico si tende, è un grave errore e conduce a missioni a tempo indeterminato la cui efficacia politica viene progressivamente erosa.
Si pensi ancora una volta al caso dell’Iraq o dell’Afghanistan. E se anche in Libia l’obiettivo fosse estirpare lo Stato Islamico non è certamente con i soli bombardamenti mirati che si potrà ottenere il risultato, come le recenti incursioni in Siria/Iraq dimostrano. Dovranno essere i libici a fare fronte comune.
È quindi fondamentale che l’Italia e i partner abbiano chiaro l’obiettivo politico. È dovere del nostro paese continuare a ricordarlo. Non serve colpire l’Isis unicamente in campo militare. Non serve rivendicare sterili leadership su nuovi interventi. Serve far cessare lo stato di anarchia in cui prospera l’Isis. Serve fare la cosa giusta.
— L’analisi è stata pubblicata da ISPI con il titolo “Italia in Libia: una visione politica” per il dossier “Libia: intervento vicino?” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore
* Arturo Varvelli è Responsabile Osservatorio Terrorismo ISPI ed esperto di Libia
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