Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
  • Esteri
  • Home » Esteri

    Usa, Cina, Ue: comincia la guerra per il monopolio dell’intelligenza artificiale

    Credit: AP Photo

    Semiconduttori, sotfware e dati. La sfida mondiale per il controllo dell’intelligenza artificiale è solo all’inizio ma apre una nuova corsa alle risorse planetarie. E se la Cina mira all’autosufficienza tecnologica, Usa e Ue puntano sul protezionismo per frenare l’ascesa di Pechino sullo scacchiere globale

    Di Giulio Alibrandi
    Pubblicato il 10 Mar. 2023 alle 07:00 Aggiornato il 10 Mar. 2023 alle 14:11

    La “spina dorsale”, il “cuore pulsante” o più semplicemente il “fondamento” dell’innovazione tecnologica. Sono alcuni dei termini usati da politici ed esperti per descrivere il ruolo che i microchip sono arrivati a rivestire nelle economie moderne. Non un’industria come un’altra, ma uno snodo centrale nelle filiere globali, diventato uno dei fronti principali della contesa tra Occidente e Cina.

    «Data la natura fondamentale di alcune tecnologie come i chip (…) dobbiamo mantenere il maggior vantaggio possibile», aveva sottolineato lo scorso settembre Jake Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale di Joe Biden, poche settimane prima che l’amministrazione statunitense desse il via libera a un divieto senza precedenti.

    Superpotenze artificiali
    Le nuove restrizioni, puntano a impedire che Pechino diventi una “superpotenza” dell’intelligenza artificiale e a fermare il sorpasso tecnologico cinese, dato per imminente fino a qualche mese fa.

    Era questa la conclusione a cui era arrivata la Commissione di sicurezza nazionale sull’intelligenza artificiale, che nel 2021 aveva invocato la ricostruzione negli Stati Uniti di un’industria per la progettazione e la produzione di microchip, di fronte alla minaccia rappresentata dall’ascesa della Cina.

    «Solo 110 miglia ci separano dall’andare da due generazioni (di microchip, ndr) di vantaggio a due di ritardo», aveva detto il co-presidente della commissione Bob Work, facendo riferimento all’ampiezza dello Stretto di Taiwan, che divide la Cina continentale dall’isola in cui hanno sede alcune delle principali aziende di semiconduttori al mondo. Il timore è che la “riunificazione”, una priorità per Pechino, possa tagliare fuori i Paesi occidentali da una fornitura essenziale per i settori più disparati, dalla difesa, alle auto, passando per le nuove frontiere dell’informatica quantistica e dell’intelligenza artificiale.

    «Se la Cina dovesse assorbire Taiwan (…) per noi sarebbe davvero un problema dal punto di vista della concorrenza», aveva ribadito Work. «La Cina è già pari (agli Usa) nell’intelligenza artificiale ed è più avanzata tecnicamente in alcune applicazioni. Entro il prossimo decennio, la Cina potrebbe superare gli Stati Uniti come superpotenza mondiale dell’intelligenza artificiale», aveva inoltre avvertito la commissione.

    Uno scenario che potrebbe essere stato posticipato di svariati decenni, secondo quanto sostengono ora gli esperti. Dopo il divieto imposto lo scorso ottobre dall’amministrazione Biden, potrebbero essere necessari, secondo alcune stime, fino a 20 anni prima che Pechino recuperi il terreno perso e torni alla situazione attuale, in cui il ritardo della Cina rispetto agli standard più avanzati è stimato in tre generazioni di chip. Questo rallentamento, osserva il South China Morning Post, potrebbe finire per ritardare, o addirittura archiviare, l’eventuale sorpasso che dovrà portare la Cina al primo posto tra le economie del pianeta.

    La caccia ai sussidi
    Per rifondare l’industria nazionale di semiconduttori, Pechino ha in cantiere un pacchetto stimato in 1.000 miliardi di yuan (135 miliardi di euro). Una risposta al piano miliardario già varato da Washington lo scorso agosto. Con il Chips & Science Act da 280 miliardi di dollari (263 miliardi di euro) gli Stati Uniti puntano a diventare «l’unico Paese al mondo» in cui «ogni azienda in grado di produrre chip all’avanguardia» abbia una presenza «su larga scala», secondo quanto dichiarato dalla segretaria al Commercio, Gina Raimondo. La risposta europea è invece attesa entro la fine dell’anno. Con l’EU Chips Act, Bruxelles punta a raddoppiare entro il 2030 la quota europea nella produzione globale di chip a circa il 20 per cento, per superare almeno in parte il forte ritardo con le due potenze globali. Finora, più che per l’innovazione in ambito tecnologico, come ricorda il think tank statunitense Brookings, l’Unione europea si è invece distinta come punto di riferimento regolamentare, da cui Cina e Stati Uniti hanno preso spunto per elaborare le proprie proposte di regolamentazione sulla gestione dei dati e sull’intelligenza artificiale.

    Per Pechino, la difficoltà sarà quella di ricreare internamente una filiera finora controllata da aziende altamente specializzate, distribuite in angoli diversi del mondo. Con le nuove regole imposte da Washington non è solo vietato per le aziende statunitensi esportare microchip in Cina (salvo eccezioni), ma non è più possibile per le imprese di qualsiasi Paese che ricorrano a tecnologie statunitensi vendere in Cina i macchinari, o i componenti dei macchinari, che possano essere usati nella produzione di chip avanzati. Inoltre è richiesta una licenza per qualsiasi cittadino o residente statunitense che voglia lavorare con aziende cinesi del settore. Una misura che punta non solo a escludere la Cina dalla filiera dei semiconduttori ma a impedirle di ricorrere alle risorse, materiali e umane, per ricrearla al proprio interno. Una sterzata decisa dopo anni di aperture e liberalizzazioni, poi interrotti dalla guerra commerciale inaugurata da Donald Trump, che avevano inaugurato una nuova epoca di globalizzazione, con cui la Cina è diventata la principale potenza manifatturiera al mondo. A porre le basi dell’integrazione cinese nell’economia mondiale, in grado di far uscire dalla povertà quasi 800 milioni di persone, era stato proprio il riavvicinamento con gli Stati Uniti, che più di 50 anni fa cambiò il corso della guerra fredda.

    Applicazioni militari
    Uno dei principali architetti di quella svolta è ancora attivo nei dibattiti che hanno accompagnato le nuove misure contro Pechino. Alla veneranda età di 99 anni, Henry Kissinger continua a pubblicare articoli e a intervenire pubblicamente per avvertire dei rischi legati ai cambiamenti “epocali” che l’intelligenza artificiale dovrebbe portare nella società. In un libro scritto insieme all’ex capo di Google, Eric Schmidt, a sua volta co-presidente della Commissione sull’intelligenza artificiale citata in precedenza, Kissinger si è spinto a definire i pericoli posti dall’intelligenza artificiale come maggiori di quelli delle armi nucleari. «Un’intelligenza artificiale che pilota un aereo o cerca bersagli segue una logica propria, che può essere incomprensibile per un avversario e insensibile ai segnali e alle “finte” tradizionali, e che, nella maggior parte dei casi, procederà più velocemente della velocità del pensiero umano».

    Come afferma il Pentagono in un rapporto dell’anno scorso, l’intelligenza artificiale applicata in ambito militare può identificare vulnerabilità nei sistemi difensivi e lanciare attacchi coordinati in tempi molto rapidi. Tra gli altri utilizzi elencati dal dipartimento di Difesa statunitense nel rapporto sulla “Potenza militare della Cina” , l’intelligenza artificiale può essere usata per diffondere propaganda, analizzare e manipolare l’opinione pubblica online e gestire reti di bot sui social media. Rischi a cui Washington per il momento ha posto un freno anche se, per stessa ammissione dell’amministrazione statunitense, il rallentamento non sarà eterno. Come ricordato a dicembre dal sottosegretario del Commercio Alan Estevez il divieto potrà «rallentare» la Cina, ma solo «per un certo periodo di tempo».

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
    Mostra tutto
    Exit mobile version