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    Giorgia l’indiana: addio alla Via della Seta per quella del Cotone. Ma per l’Italia può essere un boomerang

    Credit: AP Photo

    Il Governo aderisce a un altro corridoio economico che unirà l’India al Medio Oriente e all’Europa, sotto la spinta e con la benedizione degli Usa. Ma il cambio di rotta potrebbe non essere così vantaggioso per il nostro Paese

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 24 Set. 2023 alle 09:00

    L’hanno ribattezzata “Melodi” e durante il G20 di New Delhi è stata la coppia più popolare di Internet in India: Giorgia Meloni e il premier Narendra Modi sono stati infatti oggetto di più di un meme e di tanti video umoristici che hanno raccolto migliaia di like su tutti i social media. Tuttavia, la chimica (politica) tra i due alla base di questi scherzi diventati virali online è reale e la prova non è solo nella cordialità mostrata a favor di telecamere ma anche nei progetti strategici su cui i due governi intendono collaborare, in primis la cosiddetta Via del Cotone, un progetto appoggiato dagli Usa e che idealmente dovrebbe fare concorrenza alla Via della Seta cinese, da cui l’Italia presto si ritirerà per scelta di Palazzo Chigi.

    L’India Middle East Europe Economic Corridor (Imec), descritto come un “ponte indo-mediterraneo verso l’Atlantico”, dovrebbe diventare, soprattutto nelle intenzioni di Washington, un’alternativa al progetto di espansione voluto da Pechino ma la sua principale caratteristica finora è quella di non esistere. L’iniziativa, di cui in India si parla da anni, è stata lanciata al G20 con un memorandum d’intesa firmato anche dall’Italia ma per ora nessuno degli aderenti si è impegnato a finanziarla. Non solo, più di qualche indizio fa sospettare che, anche una volta realizzata, potrebbe non rivelarsi un grande affare per il nostro Paese, che rischia di restare tagliato fuori dalla sua rotta principale.

    La corsa al mare
    Della cosiddetta Via del Cotone, capace di rilanciare le ambizioni e l’export dell’India e di fare concorrenza alla Via della Seta cinese, si parla almeno dal 2015. Il nazionalista Narendra Modi era diventato primo ministro da meno di nove mesi quando, nel marzo di quell’anno, gli allora ministri degli Esteri, Sushma Swaraj, della Difesa, Manohar Parrikar, e del Petrolio, Dharmendra Pradhan, parteciparono a una conferenza internazionale organizzata nello stato orientale di Orissa e dedicata al tema: “L’India e l’Oceano Indiano: rilanciare il commercio marittimo e i legami tra le Civiltà”. Il convitato di pietra era, neanche a dirlo, la Cina che quello stesso mese approvò il quadro normativo necessario ad attuare la nuova Via della Seta (Belt & Road Initiative), annunciata nel 2013 da Xi Jinping e rimasta per due anni solo sulla carta.

    Alla tre giorni in India si discusse proprio della cooperazione economica nell’area e non solo, riesumando l’antica Via del Cotone. Come? Secondo la Dichiarazione di Bhubaneswar, pubblicata alla fine della conferenza, riaccendendo «gli storici legami commerciali e marittimi attorno alle coste dell’Oceano Indiano» che «rappresenta una via di transito vitale tra i Paesi dell’Asia, del Pacifico, dell’Africa e dell’Europa». Da qui, nota il documento, passa «un vasto traffico merci», comprese «le rotte petrolifere e del gas più importanti del mondo, con circa il 55% delle riserve conosciute di petrolio e il 40% delle riserve di gas». Insomma, conclude la Dichiarazione, «la regione occupa una posizione centrale nel panorama strategico globale» e, in questo senso, «l’India, insieme ad altri Paesi, ha un ruolo e una responsabilità fondamentale».

    L’obiettivo dichiarato era collegare il Paese asiatico ai mercati più ricchi in Europa e Nord America e forse non è un caso che, meno di due settimane dopo, Modi si recò in visita di stato prima in Francia e Germania e poi in Canada. Tutto però restò, allora come adesso, sulla carta. 

    Ma New Delhi non si diede per vinta, impegnandosi in un altro corridoio economico che la proiettò ancora a Ovest, anch’esso in competizione con un’iniziativa simile da parte cinese. Nel 2016, l’India firmò un accordo con Iran e Afghanistan per sviluppare un collegamento ferroviario tra il porto iraniano di Chabahar, l’unico del Paese sull’Oceano Indiano, e l’Asia centrale, in aperta sfida al Corridoio economico sino-pakistano (Cpec), costruito tra la principale città cinese occidentale Kashgar e il porto di Gwadar. Ma l’iniziativa indiana era ancor più ambiziosa: si proponeva infatti di inserire questo nuovo progetto nell’ambito del Corridoio internazionale di trasporto nord-sud (Instc), allo studio dal 2002 con la Russia di Vladimir Putin e rilanciato dal Cremlino nell’agosto dell’anno scorso.

    L’importanza di questa iniziativa è tale che negli ultimi anni, pur di portarlo a termine, New Delhi è riuscita a ottenere l’esenzione dalle sanzioni imposte contro Teheran, una concessione da parte di Washington per sfruttare la crescente voglia indiana di competere con la Cina. I risultati sono stati incoraggianti, anche se incapaci di impensierire la potenza commerciale cinese: in sei anni, il porto iraniano di Chabahar ha aumentato da 2 a 8 milioni di tonnellate la propria capacità di movimentazione delle merci, che in futuro dovrebbe arrivare a 33 milioni, mentre gli scambi con Russia ed Europa su questa tratta si sono moltiplicati dopo la guerra in Ucraina.

    Non che gli Stati Uniti siano contenti, soprattutto visto l’interesse mostrato per il progetto da Paesi come Azerbaigian, Armenia, Bielorussia, Oman, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turchia e Siria, che offrono all’India nuove rotte per raggiungere il vecchio continente, passando anche attraverso nemici dichiarati e concorrenti strategici. D’altra parte, secondo uno studio condotto nel 2014 dalla Federation of Freight Forwarders’ Association of India, questo percorso risulta del 30% più economico e del 40% più breve rispetto alla tradizionale rotta di Suez, riducendo i tempi delle spedizioni dirette in Europa a una media di 23 giorni dai normali 45-60 giorni necessari passando dal Mar Rosso e dall’Egitto. Così si spiega l’interesse degli Usa a una nuova iniziativa che coinvolga l’India e non solo.

    La mossa geniale di Joe
    L’idea è stata riesumata a febbraio all’I2U2 Business Forum di Abu Dhabi tra Usa, India, Israele ed Emirati e sembra disegnata apposta per soddisfare tutti gli interessi di Washington nella regione. Il corridoio, come si legge nel memorandum firmato anche da Meloni, si comporrà di due rami separati: uno orientale, che collegherà l’India al Golfo, e uno settentrionale, che unirà il Medio Oriente all’Europa.

    Si tratta di una serie di rotte marittime e ferroviarie che si estenderanno dall’India agli Emirati Arabi Uniti, passando attraverso l’Arabia Saudita, la Giordania e Israele, arrivando infine in Europa. «È questo il vero affare», ha commentato Joe Biden al G20, confrontando l’iniziativa firmata da India, Usa, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania, Italia e Unione europea con la nuova Via della Seta cinese. Per la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, sarà invece «un ponte verde e digitale tra continenti e civiltà».

    Il progetto, che fa parte del Partenariato per le infrastrutture e gli investimenti globali (Pgii), prevede infatti anche un elettrodotto, un oleodotto per l’esportazione di idrogeno e un cavo per la trasmissione di dati ad alta velocità. Insomma un progetto ambizioso soprattutto perché, nelle intenzioni della Casa bianca, volto a tagliare fuori in un colpo solo Cina, Russia e Iran, offrendo una serie di vantaggi all’India per avvicinarla all’Occidente.

    Grazie ai capitali europei e arabi (di cui finora non si è visto un centesimo), il nuovo corridoio dovrebbe superare le difficoltà economiche incontrate da Pechino nello sviluppo dei megaprogetti finanziati dalla nuova Via della Seta. Inoltre la rotta prevista permetterebbe all’India, in primis, di evitare i problemi legati alla guerra in Ucraina e, in secondo luogo, di raggiungere l’Europa altrettanto facilmente e velocemente rispetto al Corridoio internazionale di trasporto nord-sud: si stima che anche l’Imec risulti del 40% più breve rispetto alla tradizionale rotta di Suez. Tutto questo perché sostituire il porto iraniano di Chabahar con gli scali degli Emirati Arabi, il terzo partner commerciale dell’India, non sarebbe difficile per New Delhi e non prevederebbe ulteriori costi. A trarne maggiore profitto però sarebbero gli Usa.

    La nuova iniziativa promuoverebbe ulteriormente la normalizzazione tra Israele e gli Stati Arabi, in primis quell’Arabia Saudita che, a differenza di Egitto, Giordania, Emirati, Bahrein e Marocco, continua a non avere rapporti con lo Stato ebraico. Un progetto simile potrebbe invece incentivare Riad, da tempo intenzionata a diversificare la propria economia dal petrolio e a diventare un hub logistico e commerciale globale, ad aderire agli Accordi di Abramo, che ultimamente non sembrano più godere di buona salute.

    Non a caso, dopo la firma del memorandum, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha profetizzato che il progetto «cambierà il volto del Medio Oriente e di Israele e influenzerà il mondo intero». In più, l’Imec permetterebbe a Washington di riavvicinarsi ai suoi tradizionali alleati nella regione, soprattutto emiratini e sauditi, che a gennaio entreranno nel nuovo formato dei Brics insieme all’Iran. A fronte di tante speranze però, il nuovo corridoio economico (e la sua convenienza) rischia di restare solo un miraggio.

    Promesse e illusioni
    Malgrado le promesse, il confronto con la nuova Via della Seta cinese è economicamente impossibile. In dieci anni, Pechino ha firmato accordi di cooperazione con oltre 150 Paesi e più di 30 organizzazioni internazionali in tutto il mondo, investendo quasi 1.000 miliardi di dollari.

    Ad oggi, il memorandum firmato a New Delhi non va oltre le dichiarazioni di intenti e, forse, solo tra due mesi si arriverà a un vero piano di attuazione, in cui non è chiaro se saranno annunciate cifre o investimenti concreti. È vero che, al G7 di maggio in Giappone, i sette grandi si sono impegnati a stanziare fino a 600 miliardi di dollari entro il 2027 per competere con la nuova Via della Seta cinese ma non è chiaro quante di queste risorse potranno essere destinate all’Imec.

    Inoltre, almeno tre aderenti al nuovo corridoio economico (Emirati Arabi, Arabia Saudita e Italia, che però è sulla via dell’abbandono) partecipano anche all’iniziativa Belt & Road della Cina e, come nota lo European Council on Foreign Relations, probabilmente la regione non registra abbastanza scambi per rendere sostenibili entrambi i corridoi economici.

    Insomma è chiaro, checché se ne dica, che il nuovo progetto rappresenta un’alternativa alla Via della Seta, che però ha un decennio di vantaggio e può contare già su diversi progetti finanziati, tra cui proprio il porto israeliano di Haifa, ampliato con fondi cinesi, identificato come il più probabile scalo di collegamento tra lo Stato ebraico e l’Europa. Ma in tutto questo, qual è l’interesse dell’Italia?

    La versione di Giorgia
    Per la premier, il nostro Paese può «giocare un ruolo decisivo» in questo progetto, che però potrebbe anche rivelarsi un boomerang, in primis perché l’intesa firmata in India non chiarisce il percorso che potranno intraprendere le merci nel viaggio tra Medio Oriente ed Europa.

    Un punto su cui i media indiani sembrano invece avere le idee ben chiare: subito dopo l’annuncio del memorandum televisioni e giornali hanno cominciato a pubblicare mappe e video del progetto, in cui, dopo aver lasciato il subcontinente, i prodotti esportati raggiungono via mare gli Emirati Arabi, proseguendo via treno attraverso Arabia Saudita, Giordania e Israele. Da qui, raggiungono via nave Cipro, poi la Grecia e continuano su gomma attraverso Serbia, Croazia, Austria e infine Germania. Se questo dovesse essere il ramo principale del nuovo corridoio economico, l’Italia verrebbe tagliata fuori.

    Al di là di queste indiscrezioni, che potrebbero rivelarsi errate, è pur vero che tutte le analisi sui benefici (per l’India) di questo nuovo corridoio economico si basano sul confronto e sulla convenienza in termini di costi e tempi rispetto alle rotte marittime che passano per il Canale di Suez, la cui importanza per l’Italia è stata ribadita proprio dalla presidente del Consiglio nel suo ultimo libro-intervista con Alessandro Sallusti: “La versione di Giorgia”: «Per fare un esempio: ci rendiamo conto che con il raddoppio del Canale di Suez oggi è più facile che le merci arrivino prima in Italia dall’India che non dalla Norvegia».

    Come potrebbe Roma beneficiare di un progetto che punta a escludere l’Egitto, con cui il nostro Paese ha un legame economico e politico così tante volte rivendicato dal Governo malgrado i casi Regeni e Zaky? Non a caso, tra le prime dichiarazioni a caldo dopo la firma del memorandum a New Delhi, figura quella del generale Mohab Mamish, ex consigliere di Abdel Fattah al-Sisi ed ex capo dell’Autorità del Canale di Suez, secondo cui «non esiste alternativa» a questa rotta marittima.

    Eppure Giorgia Meloni sembra essersi impegnata a fondo, soprattutto in vista dell’abbandono dell’accordo sulla Belt & Road Initiative, firmato nel 2019 ai tempi del governo giallo-verde di Giuseppe Conte e del suo alleato Matteo Salvini. Incontrando il premier cinese Li Qiang, la presidente del Consiglio ha rassicurato Pechino sull’intenzione dell’Italia di incrementare i rapporti economici con la Cina malgrado lo stop alla Via della Seta.

    Ma, al contempo, ha lavorato per avvicinare Roma a New Delhi e per promuovere l’iniziativa alternativa al progetto cinese: è stata due volte in India nel giro di sei mesi (prima durante la visita di stato a marzo e poi al G20 a settembre); ha elevato a “strategiche” le relazioni con il Paese asiatico; ha visitato gli Emirati Arabi di ritorno dal subcontinente e subito dopo ha incontrato Netanyahu a Roma.

    Intanto, a fine luglio, Meloni ha visto Biden alla Casa bianca e, un mese dopo, il suo consigliere diplomatico Francesco Talò ha incontrato a Washington il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan. Alla fine, in entrambi i comunicati seguiti agli incontri, gli Stati Uniti hanno ribadito di accogliere «con favore la maggiore presenza dell’Italia nell’Indo-Pacifico». Dunque, sembra esserci la volontà politica di puntare più su New Delhi che su Pechino, in ossequio alle alleanze internazionali, ma prima o poi bisognerà fare i conti con la realtà.

    Per ora è impossibile paragonare l’importanza dei rapporti tra Italia e Cina con quelli con l’India. L’anno scorso, il commercio bilaterale tra Roma e Pechino ha raggiunto i 77 miliardi di euro, mentre gli scambi tra Italia e India si sono fermati a meno di 14,9 miliardi. Intanto, la Cina ha investito quasi 20 miliardi di euro nel nostro Paese, a fronte dei 400 milioni di New Delhi (dati dell’ambasciata indiana).

    Le motivazioni dell’abbandono della Via della Seta poggiavano essenzialmente su un assunto: il costo politico del rinnovo del memorandum era troppo alto rispetto ai vantaggi economici sperati. Infatti l’anno scorso il nostro Paese ha accumulato un deficit commerciale di 41 miliardi con la Cina. Eppure, da questo punto di vista, l’India non sembra molto diversa: su 14,9 miliardi di scambi bilaterali con l’Italia, nel 2022 il Paese asiatico ha accumulato un surplus di 5,2 miliardi. Come dire che scambiare Pechino con New Delhi non sembra poi un affare così vantaggioso.

    Il Governo però, come mostra l’incontro con il premier Li, non pare affatto intenzionato a perseguire un decoupling totale dalla Cina, ma l’adesione a un progetto esplicitamente alternativo alle iniziative e agli interessi del Paese asiatico potrebbe esporre l’Italia al rischio di rappresaglie da parte di Pechino, che resta comunque il nostro principale partner commerciale in Asia.

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