A meno di un mese dalle elezioni di metà mandato, gli Stati Uniti si preparano a contrastare fake news, bot, hacker e account falsi creati con l’intenzione di influenzare nuovamente le urne.
In molti infatti continuano a sostenere che dietro la vittoria di Donald Trump nel 2016 ci sia la Russia e che grazie alla strategia messa in campo dal Cremlino, Putin sia riuscito a posizionare a capo degli Stati Uniti l’unico candidato che si era espresso con favore nei confronti dello storico nemico russo.
Con l’avvicinarsi delle elezioni, il quotidiano statunitense The New York Times ha pubblicato un lungo articolo in cui raccoglie le tappe dell’avanzata politica di Donald Trump, un imprenditore e uomo di spettacolo senza alcuna esperienza in politica e su cui nessuno avrebbe mai scommesso. Tranne la Russia.
I primi indizi
I giornalisti analizzano una serie di episodi, alcuni di semplice cronaca, considerati in un primo momento privi di una reale importanza, ma che visti anni dopo e alla luce dell’attuale situazione politica degli Stati Uniti e degli equilibri internazionali che si sono venuti a creare assumono tutt’altro significato.
L’articolo si apre con un episodio molto particolare: poco prima delle elezioni del 2016 che avrebbero segnato la vittoria di Donald Trump, un enorme striscione era stato srotolato dal ponte di Manhattan a New York.
Il poster mostrava Vladimir Putin, sullo sfondo la bandiera russa, e l’improbabile parola “Peacemaker” (Creatore di pace) in basso.
A novembre, poco dopo la vittoria di Trump, apparì uno striscione ancora più grande, questa volta sull’Arlington Memorial Bridge a Washington che ritraeva il volto del presidente Barack Obama e la scritta “Goodbye Murderer” (Addio assassino) in grandi lettere rosse.
La polizia non ha mai trovato i responsabili, ma quelle stesse immagini erano apparse per la prima volta in rete dopo essere state pubblicate da un account in lingua inglese che si è scoperto in seguito appartenere a un cittadino russo vicino al Cremlino.
Alla luce di queste informazioni, quegli striscioni, secondo i giornalisti, sembrano essere un grido di vittoria per l’elezione di Trump e per essere riusciti ad influenzare così efficacemente le urne del paese da sempre acerrimo nemico della Russia.
I legami tra Russia e Trump
L’obiettivo del lungo articolo del New York Times è cercare di dare un senso alle informazioni fino ad oggi disponibili sui presunti legami tra la Russia e l’entourage del presidente statunitense, oltre a spiegare in che modo il Cremlino è riuscito a sfruttare le nuove tecnologie per influenzare le elezioni.
Per molti americani, infatti, la relazione Trump-Russia non è altro che un confuso insieme di nomi sconosciuti e gergo tecnico, ancora più difficile da comprendere a causa del continuo scambio di accuse tra i sostenitori di Trump e i suoi oppositori.
A rendere ancora più confusa la situazione hanno pesantemente contribuito i numerosi tweet pubblicati dallo stesso presidente americano, che ha più volte definito il lavoro del procuratore speciale Robert S. Mueller III come un “inganno” e una “caccia alle streghe”, nonostante le numerose prove che legano sempre più Trump con la Russia.
I giornalisti hanno quindi analizzato l’evoluzione dei legami tra il Cremlino e il taycoon per dimostrare come la Russia sia riuscita via via a insinuarsi tra le persone più vicine al “loro” candidato per la presidenza degli Stati Uniti.
“L’interferenza russa è una nuova Pearl Harbor”
“Per molti americani, l’interferenza nella politica americana sembra un attacco a sorpresa, una nuova Pearl Harbor, realizzato da una Russia inspiegabilmente sinistra. Per Putin, tuttavia, si è trattato del ritorno di un complesso investimento, una risposta giustificata a anni di provocazioni da parte degli Stati Uniti”, si legge sul New York Times.
“È molto plausibile che Putin sia riuscito a consegnare la presidenza al suo ammiratore, Trump, anche se ciò non può essere dimostrato o smentito. In un’elezione con un margine straordinariamente stretto, i ripetuti attacchi alla campagna di Clinton tramite e-mail pubblicate da WikiLeaks e i messaggi pro-Trump condivisi da milioni di elettori dalla Russia avrebbero potuto fare la differenza”.
“Nel momento in cui Trump è iniziato ad emergere come il candidato favorito per rappresentare i Repubblicani, l’operazione messa in piedi dalla Russia ha subito un’accelerazione su tre fronti: l’hacking e la divulgazione di documenti democratici; massiccia intrusione su Facebook e Twitter; e l’avvicinamento ai soci della campagna elettorale di Trump”.
I giornalisti proseguono analizzando singoli episodi che, visti anni dopo, sembrano collegare la Russia e l’inner circle del presidente statunitense.
“Russi o sospetti agenti russi – compresi oligarchi, diplomatici, ex ufficiali militari e oscuri intermediari – hanno avuto decine di contatti durante la campagna con i colleghi di Trump tramite e-mail, Facebook e Twitter. Hanno cercato di introdursi attraverso connessioni commerciali, oscure istituzioni accademiche, gruppi di veterani e la National Rifle Association”, spiegano i giornalisti.
Il presidente Trump ha sempre negato le accuse di collusione con la Russia, ma la sua posizione è cambiata nel tempo, fino al momento in cui ha affermato che, se anche ci fossero mai stati dei contatti, la cosa non costituiva comunque un reato.
L’obiettivo di Putin
Nella seconda parte dell’articolo, i giornalisti esaminano l’evoluzione dei contatti instauratisi tra la Russia e le persone vicine a Trump durante la campagna elettorale e nei momenti precedenti, quando nessuno avrebbe immaginato quanto successo il magnate americano avrebbe avuto.
“Ma perché Putin si è preoccupato delle elezioni con largo anticipo? Gli Stati Uniti, a suo avviso, avevano bullizzato e interferito con la Russia abbastanza a lungo. Era giunto il momento di contrattaccare”.
Putin in particolare era convinto che gli Usa fossero dietro le rivoluzioni colorate che hanno interessato gli Stati su cui la Russia aveva cercato di mantenere una forte influenza, come l’Ucraina o la Georgia.
Interferendo nelle elezioni americane, l’obiettivo di Putin era “evidenziare la polarizzazione della democrazia americana, rendendola un modello meno attraente per i russi e i loro vicini”.
Come scrivono i giornalisti americani, i segni dell’influenza della Russia e del suo potere su Trump sono riscontrabili nei discorsi di politica estera pronunciati dal presidente, ricchi di elogi all’omologo russo e fortemente critici nei confronti degli storici alleati europei e della Nato.
L’uso della rete per influenzare le elezioni
La rete è stato uno degli strumenti meglio utilizzati dalla Russia per influenzare le elezioni statunitensi.
“I troll nati online capirono che mobilitare gli americani attraverso la rete avrebbe portato numerois vantaggi. La formula era semplice: cerca un gruppo di persone con opinioni poco note e controverse negli Stati Uniti e versaci sopra del carburante”.
“I russi hanno usato un modello diverso per la loro campagna di influenza: pubblicare messaggi infiammatori e affidarsi alla diffusione virale gratuita. Anche per i vertiginosi standard dei social media, la portata dei loro sforzi è stata impressionante: 2.700 account Facebook falsi, 80mila post, molti dei quali con slogan accattivanti e un pubblico finale di 126 milioni di americani solo su Facebook. Un risultato non molto lontano dai 137 milioni di persone che avrebbero votato nelle elezioni presidenziali del 2016”.
Senza le società di social media americane, scrivono i giornalisti, la campagna di influenza russa non avrebbe funzionato.
“Facebook, riluttante a intervenire, non ha riconosciuto l’intrusione russa fino a quasi un anno dopo le elezioni, affermando che lo scopo principale della Russia era creare divisione. Uno sguardo più attento ha suggerito un obiettivo più mirato: danneggiare la signora Clinton e promuovere Mr. Trump”.
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