Quando Youssuf finì di parlare ci fissammo per qualche istante, poi i suoi occhi si fecero lucidi per le emozioni rievocate e lo abbracciai per tranquillizzarlo.
Youssuf ha 29 anni ed è un rifugiato politico del Senegal che ha impiegato tre anni per arrivare in Italia. La durata è strettamente correlata con la questione economica.
Nessuno dei migranti ha tutti i soldi subito, dunque è necessario fermarsi nei vari Paesi per lavorare e guadagnare nuove risorse per proseguire il viaggio. La sua traversata è stata lenta e complessa. Caratterizzata dalla costante insicurezza che lo status di profugo nullatenente determina.
Fuggì dalla Casamance, la regione più a sud del Senegal, perché costretto: è dal 1982 che questa area è scossa da un conflitto indipendentista. Nonostante la guerra civile sia, a oggi, sotto controllo, gli episodi di banditismo nei villaggi sono all’ordine del giorno. “Arrivano, ti prendono il denaro e quello che hai. Spesso ammazzano pure qualcuno. I ribelli sono incontrollabili”, mi racconta Youssuf con lo sguardo nel vuoto. È Salif Sadio il capo della ribellione senegalese ed è lui che porta ancora avanti un conflitto che di politico ha ormai ben poco.
“Se tuo padre o tuo fratello maggiore sono legati ai ribelli, tutta la famiglia è in pericolo”. Non me lo dice mai in modo esplicito, ma è questa la ragione che lo ha convinto a partire. “Neanche a Dakar sarei potuto stare tranquillo: i ribelli ti cercano dappertutto, e non sai come riconoscerli”. Raggiunto il limite della sopportazione di questa situazione di estrema precarietà, Youssuf decise di lasciarsi tutto alle spalle e partire verso l’Europa, percepita come una terra promessa.
Youssuf mi spiega che alcune compagnie organizzano i viaggi che dal Senegal, passando per Mali e Burkina Faso, arrivano fino in Niger. La Libia è troppo pericolosa e i profughi che vi arrivano sono abbandonati nelle mani delle organizzazioni locali. “Dalla Casamance si va nella città di Tambacounda, da dove è possibile prendere contatti per partire. I trasporti non sono cari, ciò che rende il viaggio costoso sono gli esborsi non previsti che posti di blocco, poliziotti corrotti o banditi determinano”.
“Se non paghi la polizia, gli agenti ti perquisiscono e ti spogliano per vedere se hai nascosto del denaro. Se non ce l’hai, ti picchiano o ti impediscono di proseguire. Sono stato pestato e umiliato varie volte”, spiega Youssuf visibilmente turbato.
Dal Niger in poi, il viaggio diventa molto incerto. A tratti aleatorio. I guidatori nigerini lasciano i passeggeri al confine meridionale con la Libia come sacchi di immondizia nei pressi di una discarica e i migranti vi entrano trovandosi nel bel mezzo di un Paese abbandonato a se stesso. Entrare in Libia ha un costo ingente: 600 Dinar (420 euro). E quasi tutti i profughi passano per la prigione.
Youssuf, incupitosi, mi racconta: “È normale andare in carcere, spesso è lo stesso autista a portartici. Non so come spiegartelo, è una sorta di commercio. Sono dei trafficanti di esseri umani. Ci hanno venduto alla polizia, non so bene perché. Ti incarcerano a Tripoli e poi ti ricollocano in altre città”.
Youssuf mi dice che i momenti peggiori li ha vissuti in Libia. Da subito ha dovuto fare i conti con la morte. La polizia che li aveva in custodia è stata attaccata da un gruppo di guerriglieri. È scoppiato uno scontro a fuoco: i migranti hanno trovato riparo dal caos di polvere e pallottole sotto una tettoia, e gli agenti, da lì sopra, provavano a respingere l’attacco.
Al terzo poliziotto che si è visto cadere davanti esanime, Youssuf era ormai certo di morire. Solo l’intervento di un altro squadrone di polizia ha permesso di farli arrivare vivi al carcere. Complessivamente, Youssuf è stato in prigione 4 mesi. Durante questo tempo, per un mese e mezzo ha ricevuto 10 centilitri d’acqua e 50 grammi di riso al giorno. “So bene cos’è la povertà, ma non avevo mai patito così tanto la fame”.
Uscito dal carcere, Youssuf era pronto a tutto pur di lasciare quello stato così inospitale. “Il viaggio verso l’Italia è molto caro (1200 Dinar, circa 700 euro) e ci ho messo circa due anni ad accumulare i soldi che, via via, davo allo scafista”.
Dal racconto di Youssuf emerge che la grossa difficoltà fronteggiata durante quest’ultima fase è legata all’essere una pedina nelle mani di padroni che ti sfruttano e che, talvolta, si rifiutano di pagarti minacciandoti di riportarti in carcere.
Raccolti i soldi necessari e poco di più per le emergenze, Youssuf è salpato. “Quando ho visto la polizia italiana sono scoppiato a piangere e ho ringraziato Allah per avermi fatto arrivare vivo”.
È rimasto in mare tre giorni. Quando gli ho chiesto se la traversata è stata dura, mi ha risposto con un sorriso: “Dopo tutto quello che ho passato, la traversata è stata uno scherzo”.
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