È ingombrante e pesante, ma lo porterà sulle spalle così come porta addosso il peso della violenza subita.
Emma Sulkowicz, studentessa della Columbia University, ha deciso di trascinarsi dietro il materasso dove è stata stuprata da un suo compagno di università.
Lo porterà con sé ovunque, a ogni lezione e in ogni momento della giornata, finché non sarà fatta giustizia e il suo aggressore non sarà bandito dal campus.
Il materasso rappresenta per Emma una doppia violenza: non solo quella perpetrata dal suo collega, ma anche quella dei poliziotti e dello staff universitario che non hanno creduto alla sua testimonianza.
Emma è stata violentata due anni fa, ma ha aspettato alcuni mesi prima di sporgere denuncia. Solo dopo l’incontro con altre due studentesse aggredite dallo stesso ragazzo ha deciso di raccontare la sua storia a un’apposita commissione disciplinare dell’università. Nonostante le denunce delle tre studentesse, la Columbia University ha difeso il ragazzo e lo ha ritenuto “non responsabile”.
Meno del 5 per cento degli stupri nei college americani viene denunciato, secondo uno studio del dipartimento della Difesa americano. La paura delle vittime di non essere credute, unita all’angoscia del dover raccontare a un estraneo quello che si è subito, prevale sulla necessità di condannare l’aggressore.
La storia di Emma dimostra che si tratta di una paura fondata. Durante l’udienza, tenutasi sette mesi dopo la denuncia, la ragazza è stata denigrata e umiliata. Un membro della commissione universitaria ha insistito nel chiederle come fosse possibile che fosse stata stuprata per via anale senza uso di lubrificante, costringendola a disegnare una bozza dei corpi per spiegarlo. Domande di questo tipo hanno fatto sentire Emma “psicologicamente devastata, poi svuotata e impaurita”.
“Alcune persone non capiscono cosa voglia dire essere stuprati”, ha scritto Emma in un articolo per il TIME. “Dicono che sia difficile capire le ragazze e avere la percezione di quando ci si debba fermare. Quando sono stata stuprata, stavo urlando ‘no’. Lottavo contro di lui. Era ovvio che non si trattasse di sesso consensuale”.
All’udienza, una delle migliori amiche di Emma era stata scelta come “supporter” per accompagnarla e assisterla durante la testimonianza. Ma dopo aver parlato pubblicamente del caso, l’amica è stata bandita dalla commissione e punita per esser venuta meno al patto di confidenzialità dell’università. La punizione assegnata è stata perversa: ha dovuto scrivere due saggi riflessivi sulla vicenda, uno dal punto di vista di Emma e un altro dal punto di vista dello stupratore.
“La scuola è sotto pressione”, ha detto Emma. “Non vuole riconoscere il mio aggressore, perché finora la Columbia poteva nascondere queste vicende sotto il tappeto e nessuno se ne accorgeva. Ma questo significa che l’amministrazione della Columbia protegge stupratori seriali. Si preoccupano più della loro reputazione che della sicurezza dei loro studenti.”
Ad aprile Emma, insieme ad altre 22 studentesse della Columbia, ha presentato una denuncia federale in cui accusa l’università di non aver saputo gestire i casi di violenza sessuale. Non solo gli aggressori non sono stati dichiarati colpevoli, ma non sono stati nemmeno allontanati dal campus.
“Ogni giorno ho paura di lasciare la mia stanza”, ha raccontato Emma. “Anche vedere persone che somigliano vagamente al mio aggressore mi spaventa. Lo vedo nel campus ed è terrificante, perché so di cosa è capace e so che continuerà a violentare altre donne”.
Scoraggiata dall’indifferenza dell’università, a maggio Emma ha presentato una denuncia formale presso un ufficio di polizia, ma le sue accuse sono state accolte con scetticismo. Un funzionario insisteva sul fatto che non poteva trattarsi di stupro, perché in fondo “lei lo aveva invitato nella sua stanza”.
Le proteste di Emma e delle altre ragazze della Columbia hanno riacceso i riflettori su uno dei crimini meno denunciati ma più diffusi nei college americani: le violenze sessuali. Tra il 20 e il 25 per cento delle studentesse universitarie negli Stati Uniti affermano di aver subito uno stupro o un tentativo di violenza, secondo i dati del 2012 dell’Istituto Nazionale della Sanità americano. La percentuale scende al quattro per cento per gli uomini.
Per rispondere alle richieste degli attivisti e delle associazioni studentesche, ad aprile la Casa Bianca ha creato un’apposita task force che ha stilato una serie di raccomandazioni per fermare e prevenire le aggressioni sessuali nei college.
Alcune università, tra cui Harvard, hanno promesso nuovi regolamenti e più trasparenza sui casi di violenza. A fine agosto, la California ha approvato una nuova legge per far chiarezza su cosa si intenda per stupro e su cosa sia il “consenso affermativo”, specificando che “l’assenza di protesta o resistenza non significa consenso, né lo è il silenzio”.
Nonostante questi importanti passi avanti, Emma non ha ancora vinto la sua battaglia. Il suo aggressore resta libero e la Columbia University si rifiuta di commentare sulla vicenda. Con la protesta del materasso, la studentessa spera di mettere sotto pressione l’università e di incoraggiare altre vittime a denunciare i propri aggressori.
La sua dimostrazione entrerà a far parte della sua tesi di laurea, per il suo corso in arti visive, ed è intitolata “Mattress Performance: Carry That Weight “ (La performance del materasso: porta quel peso).
Come spiega al quotidiano Columbia Spectator, Emma si è imposta di portare quel peso da sola. Per simboleggiare l’isolamento in cui si ritrovano a vivere le vittime di stupro, ha deciso di accettare aiuto nel portare il materasso solo quando le sarà offerto, ma non potrà essere lei a richiederlo.