Il quotidiano Haaretz lo ha definito “un eroe tragico, che ha detto addio all’immagine del leader che gestisce il terrorismo con un pugno di ferro”. Lodato dalla sinistra, contestato dal suo partito, il Likud, Benjamin Netanyahu sta cambiando pelle.
I falchi del suo governo – in testa a tutti il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman – gli intimano di dare il via all’attacco di terra a Gaza, in vista di un’occupazione della Striscia che potrebbe durare mesi. Ma il premier esita, nonostante l’opinione pubblica internazionale per una volta non sia unanimemente dalla parte di Hamas.
Netanyahu sta facendo tesoro delle passate guerre di Israele. Ripensa alla strategia fallimentare del suo predecessore Ehud Olmert che nel 2006 si lasciò abbindolare dai generali (forse perché, caso finora unico nella storia di Israele, non aveva mai prestato servizio militare) credendo di poter battere Hezbollah con il solo concorso dell’aviazione. Ripensa anche alla non vittoriosa campagna del 2008-2009, l’operazione Cast Lead, e a quella del 2012, Pillar of Cloud, entrambe conclusesi con la prevedibile sperequazione fra le vittime civili di Gaza e quelle di Israele.
Da questo cul de sac Netanyahu vorrebbe uscire con una strategia nuova, un’invenzione che sposti i termini del problema più in là senza concedere ad Hamas un lasciapassare che metta a repentaglio la sicurezza di Israele. Una soluzione, temeraria e difficile, ci sarebbe: quella di dare ad Abu Mazen più autorevolezza, più potere e mano libera su Gaza. Finora Israele, Netanyahu in particolare, ha fatto di tutto per depotenziare la figura del leader dell’Autorità Nazionale Palestinese, ridicolizzandolo per la sua moderazione quando si trattava di mettere la briglia ad Hamas o enfatizzandone il ruolo collaborativo quando si è trattato di utilizzare l’intelligence palestinese in Cisgiordania per scovare i responsabili dell’eccidio dei tre giovani seminaristi ebrei a Hebron.
Invece, paradossalmente, proprio Abu Mazen, il moderato, il ”democristiano” travestito da leader arabo potrebbe essere la chiave di volta per sciogliere le catene di Gaza e ripristinare un governo presieduto da Fatah che garantisca il flusso di persone e cose attraverso il valico di Rafah con l’Egitto, e in qualche modo dia a Cisgiordania e Gaza quell’unità per lo meno politica senza la quale non vi sarà mai uno Stato palestinese degno di questo nome.
Netanyahu sta rimeditando tutto ciò. Certo, l’operazione Protective Edge ha spezzato sul nascere la fragile intesa politica fra Fatah e Hamas dopo la rottura del 2007, ma le tessere del puzzle palestinese rimangono le stesse e nessuna vittoria sul campo – né quella mediatica di Hamas né quella militare di Tsahal – sono in grado di cambiarne la fisionomia.
Ma è proprio questo il dilemma del premier israeliano: evitare assolutamente che Hamas, nonostante sia molto indebolita e abbia perduto due tradizionali alleati (l’Egitto dei Fratelli Musulmani e la Siria di Bashar al-Assad), scompaia dalla scena. L’alternativa sarebbe una destabilizzazione di tutta l’area e una prateria vergine a disposizione delle infiltrazioni jihadiste e dei simpatizzanti del Califfato. Come dire, il peggior scenario possibile.
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