I frequentatori abituali di Londra già lo sanno, quest’anno i prezzi dei voli hanno superato di gran lunga i normali picchi da periodo natalizio. Londra ha un disperato bisogno di nuova capacità aeroportuale. Senza provvedimenti immediati entro il 2030 i passeggeri in esubero saranno 13 milioni l’anno, e la cifra salirà a 46 milioni nel 2040 e 92 milioni nel 2050. Lo squilibrio fra domanda e offerta per le slot degli aeroporti londinesi significa costi più alti per le compagnie, e quindi biglietti più cari per i consumatori.
Heathrow, terzo aeroporto più affollato del mondo dopo Atlanta e Pechino con 70 milioni di passeggeri annuali, non basta più nonostante l’affiancamento dei quattro aeroporti minori (Gatwick, Luton, Stansted e City). Il più grande d’Europa, con 5 terminal e 193 destinazioni, l’hub internazionale opera praticamente a capacità massima (98%). Questo significa che il minimo inconveniente o ritardo causa una cascata di malfunzionamenti per tutta la giornata, motivo per cui gli aeroporti operano normalmente al 75%. Lo sa bene chi viaggiando su Heathrow si è trovato a sorvolare l’aeroporto per ore, in attesa di un’autorizzazione all’atterraggio.
La soluzione apparentemente più ovvia è costruire nuove piste a Heathrow, che al momento ne ha soltanto due. L’espansione dell’aeroporto, entusiasticamente sponsorizzata dai proprietari, era stata autorizzata dal governo labourista nel 2009 mabloccata subito dopo da quello di Cameron, nel 2010. I Tory contano infatti fra le proprie fila molti parlamentari di West London, la zona che verrebbe danneggiata dall’espansione. Il problema è che l’aeroporto è circondato da centri abitati, a ovest addirittura da un complesso industriale e da un bacino idrico. Nuove piste, oltre a causare un aumento d’inquinamento acustico che già tormenta 725.000 londinesi, richiederebbero di raderli al suolo.
Il sindaco conservatore Boris Johnson, insidia permanente alla leadership Tory di David Cameron, ha detto che l’espansione di Heathrow sarebbe “una soluzione temporanea che aggraverebbe la sofferenza di milioni di cittadini, un assoluto disastro per i Londinesi”. Con il suo noto sarcasmo ha ridicolizzato la tesi dei proprietari dell’hub, secondo cui l’espansione diminuirebbe l’inquinamento acustico grazie ad una migliore distribuzione del traffico e a nuovi silenziatori: “si vede che pensano di far volare maialini, non aerei veri”.
Johnson sostiene che bisognerebbe costruire un nuovo gigantesco hub a est della capitale, su terreni sottratti all’estuario del Tamigi. A Londra il progetto è ormai soprannominato “l’isola di Boris”. Per il sindaco il nuovo aeroporto potrebbe essere pronto già nel 2029, e risolverebbe una volta per tutte i problemi della capitale. Costo complessivo dell’operazione, almeno 85 miliardi di euro . La chiusura di Heathrow, che non sopravvivrebbe alla migrazione verso est di tutte le compagnie maggiori, permetterebbe la costruzione di una città giardino sui suoi terreni che “offrirebbe 250.000 nuove abitazioni ai Londinesi che patiscono sempre più il gonfiarsi dei prezzi sul mercato immobiliare”. Per il sindaco si tratta quindi di una “fantastica opportunità per la città”.
L’Economist fa notare che chiudere Heathrow vorrebbe dire bruciare in un colpo solo 110.000 posti di lavoro, senza contare l’indotto dell’attività economica che si è sviluppata attorno all’aeroporto. A questo si aggiunge il costo esorbitante dell’operazione Johnson che, anche se in parte sarebbe coperta da capitale privato, richiederebbe 60 miliardi di euro di contributo pubblico in una fase in cui il deficit viene rincorso a suon di saccheggi del welfare. Per il settimanale britannico è meglio lasciare perdere il progetto del nuovo aereoporto ed espandere Heathrow a ovest, dove si abbatterebbero solo il complesso industriale e il bacino idrico senza demolire villaggi.
“Il gran casino degli aeroporti”, questa la definizione di Johnson, ha però causato accesi dibattiti anche all’interno della redazione dell’Economist, come il giornalista Oliver August racconta a The Post Internazionale. “Io non sono per niente d’accordo con la conclusione, e l’ho fatto presente nella riunione di redazione in cui la posizione del giornale è stata discussa”.
“Lavorando nel giornale ovviamente so bene chi scrive gli articoli (l’Economist non pubblica mai i nomi dei giornalisti, ndr.), ma il mio collega non si è lasciato smuovere da una posizione conservatrice e poco coraggiosa; Londra è una capitale mondiale, è inaccettabile che abbia problemi di capacità aeroportuale. Ci vuole l’isola di Boris, il più presto possibile”.
L’ultima voce a farsi sentire nel dibattito è stata quella della Commissione Aeroporti, voluta da David Cameron e capitanata da Howard Davies, rettore della London School of Economics fino al il 3 marzo 2011, quando lo scandalo dei rapporti fra l’Università e la famiglia Gheddafi lo costrinse a dimettersi. Il rapporto provvisorio della commissione, pubblicato martedì 17 dicembre, lascia però un po’ tutto per aria. Conferma, ma lo si sapeva, che Londra deve assolutamente avere almeno una nuova pista pronta a funzionare entro il 2030. Suggerisce, come migliori alternative, l’espansione di Heathrow o la costruzione di una seconda pista a Gatwick. La proposta di Johnson, però, non viene scartata ma solo rinviata a giudizio previe ulteriori analisi. Insomma, sul tavolo rimangono tutte le opzioni ma nessuna soluzione. Il responso definitivo arriverà solo dopo le elezioni di maggio 2015, quando un ipotetico nuovo governo Labour potrebbe decidere di cestinare la soluzione della commissione di Cameron, come il leader Tories aveva fatto nel 2010 con quella della sinistra.
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