Nyet Russia in Siria perché
Il bollettino di morte diffuso dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, Ong londinese, allunga quotidianamente la lista delle persone uccise in Siria durante gli scontri tra le forze fedeli al presidente, Bashar al-Assad, e i ribelli. La notizia dell’uccisione di quattro uomini e tre donne a Douma, roccaforte dell’opposizione, ha confermato la triste realtà del fallimento del Piano Annan, i cui sei punti, elaborati a marzo dall’ex Segretario Generale dell’Onu, avrebbero dovuto creare le condizioni per la pacificazione. Il cessate il fuoco, fissato dal Piano per il 12 aprile, non è mai stato rispettato né dal regime di Assad né dai suoi oppositori nonostante entrambe le parti avessero formalmente aderito all’iniziativa dell’Onu. Di fatto le violenze sono aumentate nelle ultime settimane senza che l’UNSMIS (United Nations Supervision Mission in Syria), incaricata di garantire il rispetto del Piano Annan, potesse far altro che assistere alla tragedia.
Il 16 giugno il generale Robert Mood, a capo dell’UNSMIS, ha annunciato la sospensione della missione composta da 298 osservatori militari e 112 civili. Secondo il generale Mood la situazione siriana è diventata troppo pericolosa per lo staff dell’UNSMIS, soprattutto per il personale civile. Se le violenze diminuiranno, la missione potrebbe essere riattivata. Ad ogni modo le possibilità che l’attuale mandato del Piano sia esteso si fanno sempre più ridotte. Ad aumentare, invece, sono le divergenze in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove la Russia e la Cina non hanno intenzione di concedere il proprio via libera a una risoluzione che preveda l’uso della forza o misure coercitive nei confronti del governo siriano. In particolare la tensione tra Mosca e Washington ha raggiunto un nuovo picco quando, il 13 giugno, il Segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha accusato il Cremlino di aver venduto elicotteri militari ad Assad.
Fonti russe hanno precisato che i contratti per la fornitura di mezzi militari a Damasco non violano alcuna sanzione Onu e che gli elicotteri oggetto delle proteste di Clinton, venduti prima dell’inizio degli scontri in Siria, sono stati semplicemente ricondotti in Russia per delle operazioni di manutenzione. Inoltre Sergey Lavrov, il Ministro degli Esteri russo, ha ribadito che Mosca non fornirebbe mai ad Assad armi che potrebbero essere usate contro i manifestanti pacifici. Il 17 giugno alcuni media statunitensi e ucraini hanno puntato nuovamente i riflettori sui movimenti della flotta militare russa nel Mar Nero e nel Mediterraneo, affermando che la nave da guerra Nikolai Filchenkovavrebbe lasciato la Crimea per dirigersi nel porto siriano di Tartus, dove la Russia conserva una base militare. Le autorità russe hanno immediatamente smentito la notizia, confermando che la Nikolai Filchenkov non è coinvolta in alcuna operazione a favore di Assad. Già a gennaio, le attività della flotta russa nel Mediterraneo, soprattutto nella base di Tartus, avevano fatto pensare al diretto coinvolgimento del Cremlino negli scontri siriani.
Le controversie tra la Russia e gli Stati Uniti contribuiscono allo stallo della comunità internazionale dinanzi al dilagare delle violenze in Siria. Il destino del Piano Annan sembra essere ormai segnato, mentre lo spettro di un intervento militare non autorizzato dal Consiglio di Sicurezza e diretto contro il regime di Assad rende il nodo siriano sempre più cruciale per la sicurezza e la stabilità del Medio Oriente. Secondo Stratfor, il nyet categorico di Mosca a un intervento in Siria sanzionato dall’Onu va letto innanzitutto alla luce dell’attaccamento del Cremlino alla sovranità nazionale, un concetto che è messo in pericolo dallaresponsibility to protect promossa dalle potenze occidentali.
Nell’interpretazione russa, la difesa dei diritti umani è diventata l’alibi di cui Washington si serve per giustificare un pericoloso intervenzionismo. A dimostrarlo sarebbero l’uso della forza da parte della Nato contro la Jugoslavia di Slobodan Milošević nel 1999 e la campagna libica del 2011. Quest’ultima in particolare caratterizzata dalla violazione dei termini della Risoluzione Onu 1973 e conclusasi con l’uccisione di Muammar Gheddafi. La volontà di impedire l’approvazione, da parte dell’Onu, di un ulteriore intervento umanitario che si traduca semplicemente nello spodestamento di Assad è stata confermata anche da Fyodor Lukyanov, tra i principali esperti russi di politica internazionale. Secondo Lukyanov, questa obiezione di principio è la ragione principale della presa di posizione russa sulla questione siriana, più potente persino dei legami economici e strategici tra Mosca e Damasco.
Eppure, secondo Stratfor, tra i motivi che spiegherebbero l’ostinazione con cui il Cremlino si oppone a una risoluzione coercitiva del Consiglio di Sicurezza sulla Siria, ci sarebbe la volontà di far cadere gli statunitensi nella trappola mediorientale. Se gli Usa decidessero di eludere l’Onu e di intervenire militarmente contro Assad, Washington e i suoi alleati si ritroverebbero impantanati in un conflitto che potrebbe coinvolgere anche l’Iran. In questo scenario, la Russia potrebbe agire indisturbata e consolidare le proprie posizioni nell’Asia Centrale. Tuttavia, come ha notato Roberto Aliboni su AffarInternazionali, non sembra che il presidente statunitense Barack Obama sia disposto a lasciarsi trascinare in una rischiosa guerra. Inoltre, c’è da chiedersi quanto gioverebbe a Mosca lo scatenamento di un conflitto in Medio Oriente, dove lo sfaldamento dei già fragili equilibri regionali potrebbe generare un effetto domino molto pericoloso, sia per l’Asia Centrale sia per la polveriera caucasica.
Infatti, il non-interventismo russo può essere compreso proprio alla luce dei timori generati dalla presenza di gruppi islamici estremisti tra gli oppositori di Assad. La dipartita del presidente siriano potrebbe lasciare campo libero ai salafiti, con conseguenze negative non solo per la stabilità degli stati dell’Asia Centrale ma anche per il già tormentato Caucaso russo, dove il fondamentalismo islamico non si è ancora sopito. Anzi, negli ultimi mesi, la tensione tra le autorità russe e i separatisti è cresciuta. A marzo, un contingente di più di 20.000 unità è stato trasferito da una base in Cecenia alla volta del Daghestan. La notizia è stata riportata dal sito Caucasian Knot che monitora costantemente le complesse vicende politiche e militari della regione. La stessa fonte ha stimato che, nel mese di maggio, almeno 50 persone siano state uccise durante il conflitto ancora in corso nel Caucaso russo, 40 nel solo Daghestan.
Il Cremlino teme che una replica in Siria dell’intervento internazionaleche ha messo fine al regime di Gheddafi possa rendere ancora più caotica la situazione nel paese e, soprattutto, generare un’ondata di disordine in una regione così pericolosamente vicina al Caucaso. In particolare, l’acuirsi delle tensioni tra i gruppi religiosi siriani, potrebbe incoraggiare gli estremisti islamici del Daghestan, della Cecenia, dell’Inguscezia e della Cabardino-Balcaria a intraprendere una lotta ancora più cruenta contro Mosca. Il veto posto dalla Russia a una risoluzione più dura contro il governo siriano ha concesso ad Assad del tempo prezioso per riportare la Siria all’ordine. Ormai, l’ipotesi che Assad riesca ad avere la meglio sui ribelli appare remota. Anche la possibilità di negoziare una tregua con l’opposizione è naufragata, trascinando con sé il Piano Annan.
Secondo Lukyanov, a questo punto Mosca potrebbe cercare di impedire l’ascesa al potere di gruppi sunniti fondamentalisti convincendo Assad a lasciare la Siria. Traendo spunto dall’Accordo di Dayton del 1995 che smorzò le violenze in Bosnia ed Erzegovina, e dall’uscita di scena di Abdullah Saleh dallo Yemen nel 2011 (grazie a un accordo tra i gruppi politici yemeniti messo a punto dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita) la Russia, con il sostegno dell’Iran, potrebbe cercare di mediare tra le fazioni siriane e individuare una soluzione politica che tenga a bada gli estremisti.
Recentemente, il Ministero degli Esteri russo ha lasciato intendere che Mosca non si opporrebbe alla dipartita di Assad, se questa fosse frutto di una decisione discussa e presa dal popolo siriano. Ma il fallimento del Piano Annan dimostra quanto le forze governative e i ribelli siano poco inclini al compromesso. Uno scenario di tipo yemenita potrebbe realizzarsi solo con un maggiore sforzo da parte dei principali attori internazionali, inclusa la Russia, nel persuadere le parti in lotta ad accordarsi per mettere un freno alla guerra civile.
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