Ci sono troppe ombre attorno alla strage nella sede di Charlie Hebdo.
Troppe incongruenze, troppe zone grigie e il sospetto ingeneroso che quella caccia all’uomo per le strade della banlieue, quel susseguirsi di operazioni e di fermi, di pedinamenti e di arresti finisca per infrangersi contro un muro di gomma.
Terroristi ben addestrati che tuttavia sbagliano indirizzo, che dimenticano la carta d’identità, che commettono errori tattici ma che manovrano con competenza militare.
Non amo le dietrologie, ma se dovessi fare un paragone direi che più che l’11 settembre dell’Europa l’attacco terroristico di mercoledì mi appare come somigliante alla strage di Piazza Fontana.
Mi spiego: nel primo attentato lo schema è lineare, al-Qaeda, Mohammed Atta e i suoi compagni, le Twin Towers, il Pentagono e la Casa Bianca come bersaglio, con una logica elementare quanto efficace sui simboli della tracotanza e della potenza militare e politica degli Stati Uniti.
Lo schema di Parigi invece assomiglia a una cipolla: dietro ogni strato ce n’è un altro, dietro un possibile manovratore ce n’è un altro, dietro un beneficiario politico un altro beneficiario ancora.
È sensazione, un sospetto, niente di più, che vorrei scacciare dalla mente, ma che purtroppo permane. Un beneficiario certo (ancorché senza alcuna, ripeto: alcuna responsabilità diretta o indiretta) è certamente il Front National di Marine Le Pen, ma non è il solo.
Non vi è dubbio che gli esecutori siano riconducibili al jihadismo più radicale ed è verosimile che i due fratelli ricercati siano i responsabili diretti della strage. Ma qualche ombra rimane. Insieme al dubbio che si potrà mai fare piena luce.
*Giorgio Ferrari è inviato speciale, autore di saggi storici e reportage di guerra. Oggi era a Parigi
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