In quel rettangolo color pastello giusto screziato dai filamenti bianchicci delle nuvole si staglia la sagoma di uno squalo d’acciaio visto di pancia, un aereo cristallizzato nell’attimo eterno del suo sorvolo sopra la Città Oscura: ed attorno, cornice di ventilatori, cemento sporco, finestrelle guardinghe incapaci di rivolgere lo sguardo in alto, in una perenne penombra, la fisionomia assopita e sospesa di Kowloon, la città-murata che si staglia sulla omonima penisola irradiata fuori dal perimetro urbanistico di Hong Kong città.
Già nella copertina, ‘Hong Kong – Racconto di una città sospesa’, di Marco Lupis e pubblicato da pochissimi mesi da Il Mulino, è una autentica dichiarazione di intenti. Perché la città asiatica, slanciata verso una dimensione irreale in cui Asia e mondo occidentale, realtà sociale e virtualità tecnologia si fondono e confondono tra loro, rappresenta da sempre, assieme a Tokyo e Singapore, il paradigma di una città-Stato iper-moderna e al tempo stesso antica, un simulacro ricombinante che assembla in via continua e ciclica la propria identità, aggregata attorno una babele di linguaggi, segni scintillanti, ferite neon, ricchezza e miseria, storia contingente e sogni infranti.
Ha appassionato storici, antropologi, studiosi di geopolitica, scrittori di fantascienza: quel lucore ambrato che si solleva in volute elettroniche dal cuore della città verso la linea d’orizzonte, e il profilo caotico e grondante cellette abitative di Kowloon, hanno occupato lo spazio creativo di pionieri del cyberpunk come William Gibson e Bruce Sterling, nella loro costruzione di una topologia postumana, analisti politici e strategici come Parag Khanna, fotografi come Greg Girard che a Kowloon ha dedicato un sontuoso libro fotografico, ‘City of Darkness: Life in Kowloon walled city’.
Hong Kong e l’arcipelago urbanistico e fisico che si dipana nella sua orbita da sempre, proprio per una storia complessa, e una irrisolta presenza nella storia, per questo suo essere un avamposto murato unito e separato al tempo stesso da tutto, hanno questo forte, pungente aroma di città-libera, un porto franco dove intrecciare relazioni e affari di ogni ordine e grado: e la cosa suggestionò autori tanto vari come le Carrè e Ludlum, il Mason de ‘Il mondo di Suzie Wong’ e lo Spielberg de ‘Indiana Jones e il tempio maledetto’.
Lupis, ben consapevole della ‘magnifica complessità’ della città, del suo essere un arcipelago a guardia di una realtà che forse non esiste davvero, si sofferma sulla consistenza labirintica, pastosa, di un territorio adagiato nella frammentazione di un alveare di realtà urbanistiche disperse tra isolette e un centro più corposo, la città vera e propria di Hong Kong. La sua conformazione del tutto peculiare ha posto Hong Kong sul tetto delle vicende storiche e coloniali, nel ventre incandescente dell’impero britannico: ancora oggi, non a caso, l’isola principale porta il nome di Victoria, omaggio e simbolo di potere riferito alla celebre Regina britannica.
Sottratta, letteralmente con la forza, ai cinesi dagli inglesi, divenuta sede di una delle ramificazioni della potentissima ‘prima multinazionale della storia’, per utilizzare l’espressione di Maya Yasanoff, ovvero la Compagnia delle Indie orientali, Hong Kong divenne centro e snodo nevralgico di una ulteriore, articolata penetrazione politico-commerciale in Asia. Ma prima di delineare la vicenda storica, Lupis si sofferma sulla descrizione fisica e geografica di questo mondo alternativo, andato incontro a non episodici fenomeni di gentrification.
Uno degli aspetti che senza dubbio alcuno esercita il maggior fascino sugli intellettuali occidentali quando si confrontano con Hong Kong è quello che Lupis delinea nel secondo capitolo, quello delle ‘mille isole’: metafora perfezionata di un mondo virtuale, legato ad una razionalità, storica, sociale, economica, centrale ma frantumato in mille e mille mondi paralleli, sorta di epigrafe incompiuta del digitale se pensiamo in fondo a come la suggestione delle ‘isole nella rete’ abbia da sempre occupato un posto d’onore nell’immaginario della cultura hacker e della narrativa cyberpunk, fino a venir a consistere di uno dei più celebri romanzi di Bruce Sterling.
Quel che davvero colpisce è la caleidoscopica girandola di esistenze, storie e identità che si dipanano sulle isole, come se ciascuna rappresentasse un universo parallelo, sospeso tra un tempo che decide di non scorrere e una robusta fantasia: gioco d’azzardo, pirati, lusso, neon, coralli, feudatari dell’epoca moderna inurbati nelle loro fortezze isolane, Lamma isola degli stili di vita alternativi. Colpiscono il lettore poi le pagine dedicate a uno dei più radicali fenomeni meterologici caratteristici di Hong Kong: e se parlar del tempo potrebbe sembrare un inutile riempitivo, in realtà, leggendo con attenzione le pagine dedicate ai tifoni e al grande vento, ai sommovimenti che squassano sibilando e urlando in quelle vallate di ferro e cemento si prova un brivido da autentico cuore di tenebra contemporaneo.
Gli stessi tentativi di fondare una architettura a prova di tifoni sembrano, dopotutto, essersi tradotti in un esperimento largamente irrisolto. E immagini il portento che scorre impetuoso travolgendo tutto, una forza primitiva ed elementale capace di sfidare iper-modernità, tecnologia e la consistenza mantrica di una città che si ricombina in sé stessa. Ma ho pochi dubbi che il capitolo più intenso e suggestivo sia quello dedicato alla penisola di Kowloon, dal suggestivo titolo ‘nove draghi’: acquisita dopo la seconda guerra dell’oppio dagli inglesi, rappresentava la protezione muraria e strategica gettata sui porti e sul mare, per riuscire a dare copertura strategica al porto principale di Hong Kong, fino ad allora tendenzialmente scoperto.
Il miglioramento sensibile delle capacità difensive resero storicamente Kowloon un punto essenziale per salvaguardare il dominio britannico: ragion per cui l’intero complesso geografico andò incontro a un radicale e organico processo di incastellamento, con la costruzione di intricati sistemi murari. L’intera penisola, proprio per la sua caratterizzazione essenziale in termini difensivi, conobbe una feroce antropizzazione che assommò coloni portoghesi, etnia Hakka originariamente residente sul posto, e famiglie degli equipaggi delle navi inglesi e dei funzionari delle compagnie commerciali minori.
Un bazar urbanistico e geopolitico in perenne movimento ed espansione, le cui costruzioni, e le reclamations, sorta di bonifica e di riedificazione, trasformarono in relativamente poco tempo la complessiva fisionomia del luogo. E proprio nel ventre della penisola, sorge quella autentica epifania a metà tra incubo e parto di fantasia che è la città-murata di Kowloon: un fatiscente, caotico, magmatico ed oscuro agglomerato urbanistico spontaneo, ubicato in uno spazio infinitesimale di appena duecentoventi per centodieci metri e l’impressionante carico antropico di, almeno, trentamila persone.
Lo spazio urbano più densamente popolato del mondo, un budello di feritoie abitate, senza una legge istituzionale ma con prassi tribali, usi, consuetudini, un organismo vivo, pulsante, con i propri codici espressivi e le proprie regole da ‘ordine senza legge’: abitata da pirati, tossicodipendenti, latitanti, guru, disegnata nei colori smorti e dai lumini rossici di bordelli, ristoranti di carne di cane e fumerie di oppio, con una pioggia eterna scrosciante sulle teste anche quando non piove, con tubature erose dal tempo e dalla incuria e spazzatura ovunque, in una notte eterna solo punteggiata di qualche fioca luce.
Kowloon è una meravigliosa aberrazione della storia, uno spazio che sembra non possa davvero esistere, sul ciglio di un abisso e pronta ad esplodere. Basata su un delicatissimo equilibrio, immoto e irreale. E come nota Lupis, in questo cubicolo di storie infrante non era dato appellarsi ad alcuna legge che non fosse quella determinata dalle interazioni tra persone e dalle intersezioni latamente giuridificate di un ordinamento spontaneo e autoregolato. In questo, Kowloon è forse il più lancinante esempio di una città-Costituzione spontanea, abbarbicata lungo il pendio scosceso del rifiuto di qualunque ordine esterno e del concetto stesso che qualcuno possa disporre di un potere fatto istituzione. E nonostante sia ormai stata smantellata, pietra su pietra, Kowloon è ancora evocata, autentica presenza fantasmatica capace di suggestionare l’ascoltatore.
Nella parte centrale del volume, Lupis ricostruisce la non pacifica storia di Hong Kong, le sue travagliate vicende coloniali, politiche, geostrategiche, finanziarie, compresa la delicata transizione dall’area di influenza britannica alla Cina, e con un ideale pendant nel capitolo diciassettesimo, analitica descrizione dei recenti moti di rivolta repressi, come ben sappiamo, con inaudita brutalità poliziesca dalla Cina comunista. Non può mancare una ampia disamina della parte più prettamente pop di una città-mondo che tanto ha affascinato e vellicato il palato degli artisti occidentali, dal cinema, in ‘Piccolo drago’, alla ‘poesia del cemento armato’, e che si avviluppa lungo una sempre più marcata, accelerata ipotesi di finanziarizzazione totale (‘la follia del denaro’) che rende Hong Kong uno snodo essenziale dei flussi di interessi economici e del mercato globale.
Ed ancora oggi, suona così dolorosamente attuale la descrizione che della città rese Jean Cocteau, descrivendola come un tutto che ‘ondeggia e si impenna e si tuffa e si attorciglia con tutti i viali irti di vie traverse, di mercati che sono viuzze, di vicoli ciechi equivoci e di scale a picco. E sembra che tutte quelle vie, quei viali, quelle viuzze, quei vicoli ciechi, quei mercati, quei gradini aspettino una processione religiosa, siano imbandierati per qualche festa spaventosa, che conducano al patibolo di un re’.
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