Un’odore acre avvolge il centro di Hong Kong. I fumi dei lacrimogeni si mischiano all’umidità. Due ore dopo la partenza del corteo non autorizzato, i manifestanti entrano in contatto con le forze di polizia.
L’area del palazzo del People Liberation Army, il simbolo della Repubblica popolare cinese ad Hong Kong, e secondo i manifestanti il segno dell’occupazione, diventa l’epicentro della battaglia. I cavalcavia si trasformano in barricate.
Volontari del primo soccorso si aggirano tra la massa vestita di nero. Chiedono ai giovani se hanno bisogno di cure mediche. Nel caso, distribuiscono anche filtri per le maschere antigas. Ai fumogeni e ai cannoni ad acqua della polizia, i manifestanti rispondono con il lancio di pietre.
La danza continua per circa mezz’ora. Riparati dietro ad ombrelli neri, gli attivisti del movimento preparano le rudimentali armi recuperate lungo il percorso. Pezzi di selciato, pali e cartelli stradali. L’assedio al palazzo è intraprendenza pura.
Un blindato viene centrato da una molotov, mentre dall’altra parte della trincea le forze dell’ordine rispondono con pallottole di gomma. È uno stallo apparente. Le forze di polizia in tenuta antisommossa appaiono da una strada laterale.
Pochi minuti di tensione, poi la carica. Una risposta tardiva. Il campo è deserto. In linea con la filosofia della protesta, “be water”, il famoso mantra di Bruce Lee interpretato come tattica di guerriglia dai ragazzi hongkongesi, i manifestanti si sono già dileguati.
Comincia così una caccia al gatto e al topo tra polizia e attivisti. Squadre delle forze dell’ordine si muovono compatte per le principali vie della città, mentre i manifestanti in piccoli gruppi sfuggono come acqua al nemico, per poi riapparire in altri luoghi dell’isola.
Le azioni durano tutta la notte: la polizia rastrella, perquisisce, arresta, rilascia; i manifestanti, che comunicano su gruppi social, compiono azioni dimostrative e di disturbo. E se da una parte si fa mostra dei muscoli, dall’altra si sbeffeggia il nemico, portandolo ad un nervosismo che ha le sembianze della tipica frustrazione di chi è in balia degli eventi.
In mezzo a questa rincorsa c’è la popolazione, che spesso supporta il movimento, aiutando gli attivisti a scegliere le vie di fuga sicure. Intanto il mondo guarda ciò che avviene attraverso le migliaia di telecamere, macchine fotografiche e cellulari presenti.
Ma anche l’esercito della stampa è confuso. Seguire i poliziotti, comunque sempre in ritardo, oppure i manifestanti, anche se il ritmo tenuto è impossibile da eguagliare? Spasmodicamente si controlla le App dei cellulari e le chat di Telegram per scorgere o anticipare la prossima azione.
E mentre la notte cala su una Hong Kong a due facce, la protesta e le luci sfavillanti della città convivono infatti in modo paradossale, il nervosismo cresce. Alla stazione metro di Causeway bay, i poliziotti sparano due lacrimogeni in mezzo ai reporter.
Di attivisti, in quel luogo e in quel momento, non c’era neanche l’ombra. Su una conversazione social tra giornalisti spuntano i video, senza fonti, di numerose violenze della polizia, ma anche di qualche azione vergognosa dei manifestanti.
Questo è l’epilogo di una giornata di orgoglio, speranza e battaglia ad Hong Kong. Una giornata a più fotografie. Iniziata in realtà in modo diametralmente opposto, con il grande corteo pacifico non autorizzato e che ha raccolto decine di migliaia di persone.
Alle 14:30 la partenza da Causeway Bay, verso Central station. Inizialmente, al raduno sono poche centinaia, ma durante la marcia, nuvole di persone si aggiungono. Lungo la strada, i cori che parlano di democrazia e libertà, si alternano alla musica dell’inno di Hong Kong.
Anziani, donne, famiglie e ragazzini insieme, per mostrare un dissenso ormai reiterato. È infatti la 15esima settimana di proteste, e ha tutte le caratteristiche per non essere l’ultima. Il ritiro del disegno di legge sull’estradizione, scintilla del movimento, non è bastato.
Le domande si sono tramutate nel corso del tempo. I palazzi governativi sono ancora una volta in ritardo. I cartelli e i poster sparsi lungo la città recitano infatti “5 richieste, non una di meno”. Le posizioni appaiono inconciliabili. Il compromesso lontano.
Da una parte c’è un movimento orizzontale, senza leadership e quindi con tutti i rischi che ne derivano, dall’altra un Governo ancorato a Pechino e con pochissime capacità di movimento. Anzi, probabilmente l’unica cartuccia è stata usata proprio con il ritiro della legge sull’estradizione.
Ma inquadrare ciò che sta avvenendo dallo scorso giugno come attualità sarebbe un errore imperdonabile. Dietro a tutto ciò c’è infatti il concetto di identità, di cui Hong Kong è gelosa. Un’idea stratificata, che è collegata alla questione linguistica, ma soprattutto allo stile di vita della città.
Un luogo con un baricentro fortemente proiettato nel mondo, in modo molto più liberale rispetto alle Cina continentale. Eppure, ed è questo che sorprende più di tutto, segnali di dissenso ai piani alti erano arrivati forti e chiari.
Il movimento del 2014, la rivoluzione degli ombrelli, è stata una prima crepa troppo visibile per essere ignorata. Il rischio che la proposta della legge sull’estradizione trasformasse il solco in canyon era reale.
E adesso, mentre Pechino guarda, con una tattica attendista, oppure spiazzato dalla forza del movimento, Hong Kong si sveglia calma in questo lunedì mattina assolato. Ieri è ormai parte di una normalità senza isterismi. Quasi un messaggio: noi possiamo vivere anche così.
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