Professore, quale spazio geopolitico occupa l’Italia?
«Forse non lo sa neanche l’Italia (sorride, ndr)».
Si spieghi meglio.
«A livello di appartenenze diplomatiche, trattati, etc, facciamo parte del blocco occidentale a guida americana. Ma, per la verità, ci siamo concessi qualche infedeltà».
Di che genere?
«Negli anni Sessanta e Settanta si diceva che l’Italia aveva la moglie americana e l’amante araba, che ci dava il petrolio. Ma con il tempo questa tendenza è andata via via diventando un movimento pendolare imprevedibile».
Perché?
«Un po’ perché abbiamo avuto un’alternanza di governi che la volevano pensare in modo diverso, anche quando – fondamentalmente – non sapevano cosa pensare. Un po’ perché il mondo è diventato molto più complesso, per cui si può essere alleati su un dossier e concorrenti o addirittura avversari su un altro».
Ci fa un esempio?
«Noi siamo alleati degli Stati Uniti ma siamo sicuri che gli Stati Uniti siano nostri alleati?».
Bella domanda.
«Basta guardare a una serie di aggregazioni come la Nato, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, i Brics+, etc. Alcuni Paesi partecipano a più di uno di questi blocchi. Anzi, qualche volta a tutti e tre».
Che cosa significa?
«Che in realtà non si tratta di vivere in blocchi, ma di un rapporto a geometria variabile, per cui due Paesi possono essere alleati nel teatro dell’Indo-Pacifico, ma concorrenti per quanto riguarda il petrolio in Medio Oriente e nemici dal punto di vista ideologico».
Ci faccia un altro esempio.
«Il caso limite è la Turchia, perché è un Paese membro della Nato, candidato a entrare nell’Unione europea, ma allo stesso tempo ha presentato domanda di adesione ai Brics+ ed è interessato (come Stato osservatore, ndr) anche al blocco della comunità di Shanghai».
Come se lo spiega?
«Il presidente Erdogan ragiona come un sultano ed erede dell’Impero Ottomano, quindi come un polo a sé, che stabilisce una serie di rapporti politici bilaterali estremamente pericolosi, capace di far fuori l’Italia su tutto il nostro estero vicino: dalla Libia all’Albania, dove l’influenza italiana è stata sostituita da quella turca. Ormai sono le dinamiche di questo mondo».
Con quali conseguenze?
«L’esito più probabile è la mancanza di ordine, cioè una grande “Caoslandia”».
Ce la descrive?
«È un ordine, se così possiamo definirlo, acentrico e caotico come, con grande lungimiranza, aveva previsto Alessandro Colombo in un suo libro di quasi dieci anni fa, “La disunità del mondo”. Allora però, tra cinque scenari possibili, l’autore considerava quest’ultimo il meno probabile quando all’epoca nessuno lo riteneva neanche possibile. Invece adesso ci è piovuto addosso».
Così si moltiplicano i conflitti e l’incapacità di risolverli. Perché?
«Uno dei danni che ha combinato il progetto neoliberista è stato il dominio della finanza rispetto alla politica. Questo ha finito per respingere la politica in una posizione subalterna e stabilire una sorta di alleanza fra la spada e la moneta, fra la finanza e il mondo militare. Il risultato è che nelle guerre non c’è più un obiettivo politico e come dice Lucio Caracciolo: “Se non c’è un fine, non c’è una fine”. Perché ogni guerra, questo era il senso che gli dava Carl von Clausewitz, si fa per un fine e l’obiettivo era la pace successiva, che ciascun contendente voleva più favorevole per sé. Ma se non sai cosa vuoi e quindi non sai dove fermarti, la guerra diventa una specie di ciclo che riproduce costantemente se stesso».
Qual è il risultato?
«Oggi, dopo aver detto che la globalizzazione sarebbe stata una meta di pace, fra guerre, guerriglie e rivolte interne abbiamo a che fare con circa 160 diversi conflitti, che investono la maggioranza del pianeta. Su oltre 190 Stati esistenti, circa 170 sono impegnati in guerra e qualcuno in più di una. Quindi questo è il panorama: ecco cos’è “Caoslandia”. Ci siamo già».
Non funzionano più nemmeno i meccanismi di controllo, come l’intelligence?
«Nel Novecento l’intelligence è costantemente cresciuta sino a diventare, in teoria, il principale strumento di controllo delle dinamiche mondiali. Cioè ciascuno Stato ha usato i servizi segreti come la sonda più sofisticata per capire e controllare il polso del mondo. Questo, per un certo periodo, ha funzionato: si pensi solo alla quantità di guerre indirette, appoggi a guerriglie, etc, che ne hanno fatto l’artiglio del potere».
Poi cos’è successo?
«Da un lato c’è stato un eccesso di aspettative. Ormai all’intelligence si chiede ben più di quanto preveda il suo mandato: il controllo delle migrazioni, delle scienze e perfino delle dinamiche culturali. Le troppe aspettative, le scarse indicazioni dalla politica, il diffuso nepotismo e occidentalismo nella selezione dei gruppi dirigenti e anche degli agenti sul campo hanno prodotto un risultato deludente».
Con quali effetti?
«Tutte le maggiori intelligence mondiali, a parte quella cinese, tra guerre in Ucraina e in Medio Oriente, colpi di Stato nella Françafrique, etc, hanno perso completamente la cognizione di cosa stava succedendo. Basti pensare al fatto che americani e russi erano entrambi convinti, sia pure con una valutazione opposta, che l’Ucraina avrebbe resistito non più di tre settimane all’invasione di Mosca. Ora siamo al terzo anno di guerra. Questo vuol dire che non erano più in grado di capire cosa succede sul campo ed è proprio uno degli aspetti che alimenta il caos, perché una serie di agenzie molto importanti e potenti si muovono senza sapere esattamente cosa vogliono fare».
Il problema è la mancanza di direzione politica?
«Non solo: più in generale manca una lingua comune. Nel libro che ho citato di Alessandro Colombo si diceva che nel mondo del bipolarismo era in corso un conflitto ideologico ma tutti parlavano la stessa lingua, la politica. Al di là del fatto che fosse declinata in inglese o in russo, la lingua del potere era la medesima. Oggi, invece, non esiste più questo: abbiamo una serie di linguaggi che non riescono a comunicare fra loro».
Ce lo spiega con un altro esempio?
«Basti pensare al fenomeno del radicalismo islamico e del come gli Stati Uniti non lo abbiano capito, rimediando due sconfitte frontali in Iraq e in Afghanistan. Un esito emerso anche dall’incapacità di capire i luoghi in cui sbarchi per andare a fare qualcosa. Questo è un altro dei problemi».
Da allora siamo passati dai “conflitti asimmetrici” alle “guerre ibride”.
«L’idea della “guerra ibrida” nasce da un libro di due strateghi dello Stato Maggiore cinese che si intitola “Guerra senza limiti”. Vi dice niente? È il pericolo maggiore».
Ma non è la guerra nucleare il pericolo maggiore?
«Quando mi chiedono: “Ma c’è il pericolo di una guerra atomica?”, rispondo sempre che non è del nucleare che dobbiamo aver paura».
Perché?
«A parte qualche matto scatenato come il dittatore nord-coreano Kim Jong-un, in realtà nessuno vuole usare l’atomica, compreso Putin, che minaccia di ricorrervi almeno tre volte al giorno, con la riserva mentale di non farlo mai. In realtà il nucleare ha garantito 70 anni di pace mentre queste nuove forme di guerra, come i cyber-attacchi oppure l’esplosione dei cercapersone in Libano, etc, fanno molta più paura».
Come mai?
«Perché non comportano la distruttività dell’atomica e quindi la remora a sganciarla: si immagini se lo stesso attacco, anziché i cercapersone, avesse colpito centinaia di caldaie di una città. Il risultato sarebbe stato ancora più devastante di un bombardamento convenzionale, con un numero impressionante di morti, senza l’effetto della radioattività. Questo genere di attacchi spaventa per la loro “praticabilità”».
Cosa comporta?
«Siamo di fronte a un segnale molto negativo per l’evoluzione della nostra polemologia, ossia la concezione che abbiamo della guerra. Quell’attacco è un punto di non ritorno pericoloso. Alla fine, lo ripeto, ironicamente il nucleare è stato una scoperta di pace perché il timore della distruzione reciproca ha tenuto tutti quanti a freno. Oltretutto, in caso di aggressione atomica, è prevedibile da dove questa sia partita e quindi la reazione è abbastanza probabile. Viceversa, un attacco come quello compiuto dagli israeliani può anche essere condotto in forma coperta, per cui non è possibile capire da dove sia partito».
Come cambia lo scenario?
«Finora abbiamo pensato alla guerra, giustamente, come un fatto tra Stati. Poi abbiamo cominciato ad assistere alle guerriglie e ai fenomeni terroristici. Ma ora siamo andati oltre».
Cioè?
«Se, per esempio, si vuol mettere fuori mercato una ditta produttrice di telefonini, basta un attacco di questo genere, che non si capisca da dove sia venuto. All’improvviso tutti i cellulari di quel tipo sembreranno pericolosi e il giorno dopo il titolo di quell’azienda crollerà in borsa. Ci rendiamo conto di quanto è pericoloso tutto questo? È una “Caoslandia” elevata al cubo».
C’è il rischio di ritrovarsi di fronte a guerre private?
«Facciamo due conti: gli Stati riconosciuti sono circa 194. Aggiungiamoci le formazioni terroristiche, le milizie, etc e saliamo già a qualche migliaio di soggetti. Ma se ci mettiamo dentro anche le potenziali aziende in grado di realizzare attacchi del genere contro i propri concorrenti, arriviamo a centinaia di migliaia. Dopodiché, altro che “Caoslandia”».
Le faccio un nome: Elon Musk.
«Elon Musk e altri, come il defunto Steve Jobs, sono grandi personaggi noti a tutti. Ma non avete idea di quanti soggetti più piccoli, seppur non ancora con quel potere e capacità di intervento, siano già capaci di scatenare situazioni di forte destabilizzazione. E cresceranno».
Cosa si può fare?
«Se non ci diamo una regolata, istituendo un ordine mondiale che ripristini le norme del diritto internazionale e rimedi al disastro dell’Onu, che ormai è un ente inutile, non possiamo pensare di governare tutto questo».
Cosa serve?
«Prima di tutto sarebbe bene riformare completamente le Nazioni Unite, abolendo il diritto di veto. Poi bisogna pensare a un’organizzazione diversa e capace, al contrario dell’Onu, di intervenire in alcune situazioni, come ad esempio per imporre un cessate il fuoco».
Si riferisce a Gaza e al Libano?
«Vorrei ricordare che, da decenni, Israele occupa illegalmente una serie di territori in violazione delle deliberazioni delle Nazioni Unite e l’Onu non è in grado di fare niente. Allora la riforma di questa organizzazione dev’essere il primo passo. Poi possiamo pensare a un quadro di norme di diritto internazionale molto più cogenti, in grado di legare le mani ai singoli soggetti e di obbligarli a rispettare gli accordi. Sono questi i passi che dovremmo cominciare a scrivere nella nostra agenda politica. Il guaio è che non li vedo proprio nei programmi dei governi».
C’è chi ci sguazza in questo caos?
«È una specie di effetto domino: per cui il caos alimenta la mancanza di norme e la mancanza di norme alimenta il caos. Tutti e due si reggono a vicenda. Ma se non usciamo da questa dinamica, andiamo a sbattere».