Mariam ha 34 anni, un figlio di 8 e vive in un rifugio di fortuna ad Adré, nel Ciad orientale. Come Amira, Mahamat e altre migliaia di persone di etnia Masalit è fuggita dal Sudan, dove la guerra di potere scoppiata ad aprile scorso tra i generali Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo “Hemeti” ha riacceso conflitti etnici mai sopiti provocando, secondo l’Armed Conflict Location & Event Data Project (Acled), oltre 13mila vittime in soli nove mesi.
La giovane è scappata a piedi dal suo villaggio nel Darfur occidentale, dove ha lasciato gli altri suoi sette figli, e dopo quattro giorni di cammino è riuscita a superare il confine ma ora riesce a malapena a trovare da mangiare. Amira invece, che a 46 anni ha dovuto lasciare la propria casa, ha perso ben cinque figli nelle violenze commesse dalle Rapid Support Forces (Rsf), le milizie guidate da Hemeti ed eredi dei famigerati Janjaweed accusati di crimini indiscriminati in Darfur. Non è andata meglio al 19enne Mahamat, anch’egli di etnia Masalit, che durante gli attacchi delle Rsf ha perso quattro parenti. Tutti e tre, insieme ad altri 50mila rifugiati, vivono nel campo profughi di Adré, in Ciad, un Paese che da solo ha accolto oltre 480mila persone fuggite dal vicino Sudan da dove, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), oltre 7,7 milioni di residenti sono dovuti scappare. Eppure, mentre siamo tutti concentrati su quanto accade in Medio Oriente e (quando ce ne ricordiamo) in Ucraina, quasi nessuno ne parla.
Un altro (possibile) genocidio
L’Unione europea, per bocca dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell, denuncia apertamente il rischio di «un altro genocidio» in Darfur, dove all’inizio di novembre le Rsf hanno ucciso oltre mille persone nella sola cittadina di Ardamta, mentre a dicembre più di ottomila rifugiati hanno raggiunto il Ciad in una sola settimana.
Intanto gli Stati Uniti, il cui inviato speciale per il Corno d’Africa Michael Hammer ha presenziato il 18 gennaio al vertice in Uganda dell’Intergovernamental Authority on Development (Igad), sono preoccupati della possibile «disgregazione del Sudan, se il conflitto dovesse continuare». Il 9 dicembre scorso infatti i due contendenti si erano accordati per un cessate il fuoco incondizionato, una tregua mai entrata davvero in vigore. Anzi, gli scontri si sono intensificati mentre Burhan ha sospeso l’adesione del Sudan all’Igad per aver invitato il suo rivale Hemeti al summit di Kampala, concluso con un appello congiunto di Nazioni Unite, Unione africana, Unione europea e Stati Uniti a «mettere a tacere le armi» per non porre a rischio «la stabilità dell’intera regione e oltre».
Il vertice infatti ha riguardato la sicurezza di tutto il Corno d’Africa, minacciata anche dalla crisi esplosa tra Etiopia e Somalia. Tutto è cominciato il 1 gennaio quando Addis Abeba, che non ha sbocco al mare, ha firmato un accordo con l’autoproclamata repubblica separatista del Somaliland per ottenere l’accesso alla costa, in particolare nel porto di Berbera.
Un’intesa avversata con forza da Mogadiscio, che non riconosce l’indipendenza di Hargeisa, tanto che il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud si è appellato all’Onu, all’Ua e al Movimento dei Non Allineati «per impedire un’invasione da parte dell’Etiopia e tutelare il principio di sovranità». Intanto però, prima della firma del contestato memorandum, si vociferava di un possibile nuovo conflitto tra Addis Abeba e l’Eritrea per la conquista di un tratto di costa sul mar Rosso, mentre dopo due anni di ostilità scoppiate nel 2020 la sopita guerra in Tigray si è lasciata dietro centinaia di migliaia di morti.
Possono sembrare crisi lontane, eppure hanno ripercussioni importanti sull’Europa e sui nostri interessi nazionali.
Rotte della morte
L’insicurezza in Sudan e nel Corno d’Africa sono direttamente collegate alla destabilizzazione della Libia e all’aumento dei flussi migratori verso il Mediterraneo centrale. Secondo l’agenzia europea della Guardia di frontiera e costiera (Frontex), l’area rappresenta «un’importante regione di origine» dell’immigrazione verso l’Europa. Oltre 17mila migranti irregolari provenienti da questi Paesi hanno raggiunto l’anno scorso le frontiere esterne europee. Il 2023 infatti è stato un anno record in questo senso, con quasi 380mila immigrati giunti senza regolare permesso ai confini dell’Ue. Si tratta del livello più alto dal 2016, in aumento del 17 per cento rispetto al 2022, anche grazie all’incremento degli sbarchi nel Mediterraneo centrale, dove l’Italia è in prima linea.
Secondo l’agenzia europea, oltre 157mila migranti sono arrivati nell’Ue lungo questa rotta e la maggior parte di queste persone, stando ai dati presentati a fine anno dal ministero dell’Interno, sono sbarcate in Italia: almeno 155.754 immigrati irregolari hanno raggiunto via mare il nostro Paese, quasi il 50 per cento in più rispetto al 2022 (103.846) e il doppio del 2021 (67.040).
Una situazione peggiorata da conflitti e disastri naturali ma anche dalla mai risolta crisi in Libia, un altro dossier spesso dimenticato. Malgrado la riunificazione della Banca centrale, avvenuta ad agosto scorso quando sono anche ripresi brevemente gli scontri nella capitale (con almeno 55 morti e 146 feriti), il Paese resta diviso tra il governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli e le autorità della Cirenaica, controllate dal maresciallo Khalifa Haftar. Il piano di un governo riunificato prima delle elezioni è saltato e intanto le consultazioni, fissate in origine per dicembre 2021, sono rinviate a data da destinarsi.
Non ha aiutato la terribile alluvione del settembre scorso a Derna, costata oltre 4.300 morti e che ha causato più di 40mila sfollati aumentando, secondo l’Unhcr, fino a 350mila il numero di persone bisognose di aiuti umanitari in Libia, che per l’Oim ospita anche più di 697mila migranti. La maggior parte dei quali (oltre 340mila) arriva dall’Africa sub-sahariana, soprattutto dal Sahel. Non a caso, secondo Frontex, il 47 per cento dei migranti irregolari arrivati l’anno scorso alle frontiere dell’Ue proveniva dall’Africa occidentale, che da anni versa in condizioni sempre peggiori.
A tutto golpe
Burkina Faso, Mali e Niger, tutti Paesi ormai governati da giunte militari arrivate al potere con la violenza, devono fronteggiare non solo livelli estremi di povertà ma anche un’insurrezione jihadista in corso da oltre un decennio guidata dal ramo di al-Qaeda nella regione (Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin) e dall’organizzazione locale affiliata all’Isis, la cosiddetta Provincia del Sahel del sedicente Stato Islamico. Secondo l’Acled, soltanto in Burkina Faso l’anno scorso sono state uccise oltre 8mila persone, il doppio del 2022. In Mali, la presenza di mercenari russi che affiancano i militari di Bamako nell’offensiva contro il nord controllato dai gruppi jihadisti è triplicata rispetto all’anno precedente mentre nel vicino Niger, dove l’esercito ha preso il potere a luglio con un colpo di stato, si sono moltiplicati gli attentati rivendicati da al-Qaeda, gli ultimi due avvenuti proprio questo mese non lontano dalla capitale Niamey e costati la vita ad almeno tre civili.
In tutta la regione, stando all’Oim, gli sfollati sono almeno tre milioni mentre quasi 17 milioni di persone, un quinto della popolazione dei tre Stati africani, hanno bisogno di assistenza umanitaria. Malgrado questo, come denunciato da diverse agenzie Onu, finora sono stati finanziati meno di un terzo dei 2,2 miliardi di dollari necessari per far fronte a questa emergenza. Ma non finisce qui.
Che fine ha fatto Kabul?
Stando all’Unhcr infatti il 2023 è stato l’anno che ha registrato il maggior numero di emergenze umanitarie nell’ultimo decennio e il 2024 potrebbe non andare meglio: una persona su 200 in tutto il mondo è un rifugiato, una categoria che quest’anno potrebbe superare i 140 milioni di individui. Tra le crisi peggiori poi, neanche a dirlo, c’è ancora una volta l’Afghanistan, che dopo 40 anni di guerre non smette di soffrire.
Gli afghani costituiscono una delle più numerose popolazioni di rifugiati al mondo. Almeno 2,6 milioni di persone sono state costrette a scappare all’estero, di cui 2,2 milioni solo in Iran e Pakistan. Altri 3,5 milioni sono sfollati all’interno dell’Afghanistan stesso, fuggiti dalle proprie case a causa della violenza, che non si è mai fermata. Malgrado il ritiro delle truppe occidentali nell’agosto 2021 abbia provocato una diminuzione degli attacchi dei talebani, tornati al potere a Kabul, gli attentati dell’Isis e la repressione del governo fondamentalista continuano a mietere vittime tra i civili.
All’inizio dell’anno, il ramo del sedicente Stato Islamico in Afghanistan (Isis-Khorasan) ha rivendicato due attentati compiuti a Kabul in meno di tre giorni, costati la vita a quattro persone. In tutto, nonostante le autorità talebane dichiarino che il gruppo terroristico sia stato sconfitto nel Paese, l’anno scorso oltre una cinquantina di persone sono rimaste uccise in attentati rivendicati dall’Isis, compresi almeno due alti funzionari del regime tornato al potere dopo il ritiro degli Stati Uniti.
Nemmeno i talebani però hanno rinunciato alla violenza contro i civili negli ultimi due anni: secondo i dati dell’Acled, il 62 per cento delle brutalità commesse contro la popolazione nel periodo compreso tra la presa di Kabul (15 agosto 2021) e il 30 giugno dello scorso anno può essere attribuito alle autorità locali, protagoniste di detenzioni arbitrarie di oppositori ed ex collaboratori del governo filo-occidentale, torture, violenze contro le donne e omicidi. «Ciò colloca il regime talebano in Afghanistan tra i principali attori statali al mondo responsabili delle violenze contro i civili», si legge nell’ultimo rapporto del progetto britannico. «Secondo solo al Myanmar».
Raid sui civili
Gli attacchi contro la popolazione civile da parte della giunta militare birmana si sono infatti intensificati nell’ultimo anno, specie a partire da ottobre quando è cominciata la cosiddetta “operazione 1027”, un’offensiva militare negli stati settentrionali di Shan e Rakhine lanciata dalla Three Brotherhood Coalition (3BHA), un insieme di gruppi di resistenza armata, a cui il governo ha risposto con bombardamenti aerei su città e villaggi.
La coalizione, che è formata da gruppi armati legati a determinate comunità etniche tra cui l’Arakan Army, il Myanmar National Democratic Alliance Army (Mndaa) e il Ta’ang National Liberation Army (Tnla), resiste al regime salito al potere nel febbraio 2021 quando con un golpe militare spazzò via il governo legittimo e fece arrestare la leader Aung San Suu Kyi, tuttora agli arresti domiciliari. Da allora è impegnato in una sanguinosa guerra contro diverse formazioni, attive soprattutto nel nord del Paese.
L’anno scorso, i militari hanno perso oltre un centinaio di basi e postazioni nello stato di Shan dove l’esercito, la polizia e le milizie filo-governative si sono ritirate di fronte all’avanzata di quasi 10mila combattenti della coalizione, lasciandosi dietro armi pesanti e munizioni. Così, ad oggi, la Three Brotherhood Coalition controlla Chin Shwe Haw e Mong Ko, le principali località al confine con la Cina, dove sono stati distrutti tutti i ponti e le autostrade che collegano i due Paesi, mentre anche la più grande città della regione, Lashio, è stata teatro di scontri tra la coalizione e le truppe governative. Il regime ha risposto in maniera brutale, lanciando raid aerei indiscriminati, che hanno colpito persino scuole, ospedali e campi profughi, secondo la politica dei “quattro tagli” mirante a stroncare ogni fonte di cibo, fondi, informazioni e reclute per la resistenza.
Così, secondo le Nazioni Unite, tra il 26 ottobre e l’8 dicembre, oltre 578mila persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case, andando ad aggiungersi ai quasi 2 milioni di sfollati già registrati prima dell’offensiva lanciata ormai tre mesi fa, da quando almeno 363 civili sono morti e altri 461 sono rimasti feriti. A nulla sembra valso l’intervento della Cina, il cui ministero degli Esteri il 12 gennaio aveva annunciato un accordo di cessate il fuoco tra l’esercito e la coalizione.
Come già successo a dicembre con un’intesa simile, gli scontri non si sono mai placati. Tanto che, il 15 gennaio, l’Arakan Army ha rivendicato la conquista della città di Paletwa, nello stato di Chin, vicino al confine con India e Bangladesh, dove New Delhi ha investito in una serie di importanti progetti infrastrutturali. Una notizia che, come tante altre, non è riuscita a conquistare le prime pagine.
Eppure, come avrebbero dovuto insegnarci lo scoppio della guerra in Ucraina e il riaccendersi delle violenze in Israele e Palestina, ignorare i focolai di crisi e i conflitti in corso può solo peggiorare la situazione, a danno di tutti.
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