Guerra Usa-Iran | Perché gli Usa hanno attaccato l’Iran e Teheran ha risposto: tutta la storia in 100, 300 e 900 parole
Usa e Iran sono a un passo dalla guerra. L’uccisione del generale Soleimani (qui il suo profilo) avvenuta il 3 gennaio 2020 in Iraq ha infatti scatenato una nuova crisi in Medio Oriente, difficile da comprendere.
Nella notte tra martedì 7 e giovedì 8 gennaio 2020 l’Iran è passato al contrattacco dopo l’uccisione del braccio destro del potere iraniano: decine di missili sono stati lanciati contro due basi americane, ad al-Asad ed Erbil. Le conseguenze sono globali: militari, ma anche politiche, economiche e sulla sicurezza in Occidente.
Ma perché gli Usa hanno attaccato l’Iran? Perché Teheran ha risposto colpendo le sue basi militari americane? E perché proprio adesso? Cosa sta succedendo? Quali sono i motivi della guerra tra Usa e Iran e con quali forze in campo? Come nel format utilizzato dalla BBC, TPI lo ha spiegato in 100, 300 e 900 parole:
La storia in 100 parole
Non si è fatta attendere la risposta dell’Iran all’uccisione a Baghdad di Soleimani portata a termine da un drone americano il 3 gennaio 2020. Celebrati i funerali del generale iraniano, i Pasdaran (il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica) hanno lanciato nella notte tra 7 e 8 gennaio diversi razzi contro due basi statunitensi dislocate in Iraq, nelle vicinanze della zona dove sono presenti anche i militari italiani.
I dodici missili lanciati dai Pasdaran sarebbero soltanto l’inizio dell’operazione Soleimani Martire, con Il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica che hanno minacciato azioni ancora più pesanti nei confronti degli Usa se ci saranno ritorsioni dopo gli attacchi.
La decisione targata Usa dell’uccisione di Soleimani sarebbe stata presa alla luce dell’escalation di violenza registratasi a Baghdad, culminata nell’assalto all’ambasciata statunitense condotto da miliziani iracheni collegati all’Iran. La giustificazione ufficiale fornita dalla Casa Bianca è quella della “difesa preventiva”.
Gli attriti nei rapporti tra Usa e Iran derivano dal conflitto per il dominio della regione che va avanti da decenni. L’ultima escalation è cominciata a maggio del 2018, quando Donald Trump annunciò il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare con cui l’Iran avrebbe ridotto la sua capacità di raggiungere la costruzione di ordigni nucleari in cambio di una diminuzione delle sanzioni economiche.
Guerra Usa-Iran | La storia in 300 parole
Quello tra Iran e Stati Uniti è un contesto già molto acceso, quindi l’uccisione del numero due del potere iraniano, il generale Qassem Soleimani, morto a seguito di un attacco portato a termine da un drone americano nelle vicinanze dell’aeroporto di Baghdad il 3 gennaio 2020, è stata senz’altro un segnale di conflitto.
Le ricostruzioni dei media sono state tra le più disparate: c’è chi dice che l’attacco era stato deciso mesi prima, per qualcun altro si è trattato di uno sbaglio, altri parlano di operazione improvvisa. La verità è che non si conoscono le tempistiche dietro le ultime azioni intraprese dal presidente americano.
Quello di Trump potrebbe essere anche stato un segnale per dire all’Iran “avete oltrepassato troppe linee rosse”: dall’attacco dell’ambasciata Usa in Iraq, una delle più imponenti e costose nel mondo, ai bombardamenti iraniani in Arabia Saudita, che è il principale alleato degli Usa in Medio Oriente.
La reazione dell’Iran non è stata esattamente proporzionata, nel senso che non è stato ucciso il segretario di Stato americano Mike Pompeo o un’altra figura del genere, ma sono invece state attaccate le basi militari americane in Iraq. Questo anche perché la potenza militare iraniana è inferiore rispetto a quella Usa.
La ritorsione dell’Iran contro gli Usa si è consumata nella notte tra martedì 7 e giovedì 8 gennaio 2020: decine di missili sono stati lanciati in Iraq contro due basi americane, ad al-Asad ed Erbil, dove tra l’altro sono presenti anche diversi militari italiani.
L’orario di lancio degli ordigni non è stato casuale: quella che a Teheran hanno ribattezzato l’operazione “Soleimani martire” è partita infatti all’1:20 locale, la stessa ora in cui è iniziato il raid Usa nella notte del 2 gennaio, nel quale ha trovato la morte il generale iraniano.
Mentre il leader supremo iraniano Ali Khamenei parla di “schiaffo all’America, che però non è ancora abbastanza”, il presidente Usa Donald Trump ha twittato che in Iraq “va tutto bene“, smentendo di fatto le notizie che annunciano decine e decine di vittime. Anche durante la conferenza stampa alla nazione Trump ha ribadito che “i militari Usa sono pronti ad ogni evenienza”.
Il rischio escalation potrebbe portare a una “terza guerra mondiale”. Per comprendere cosa sta succedendo è importante fare un accenno al contesto storico: da decenni ormai Usa e Iran portano avanti un conflitto molto teso. Gli Stati Uniti cercano di portare via all’Iran l’influenza della regione, cercando di arginarlo dentro ai suoi confini. Al contrario, Soleimani era proprio “l’addetto esteri”, il generale che doveva occuparsi di espandere l’egemonia iraniana.
Le alleanze nella regione si fanno su due schemi: l’Iran è appoggiato dalla Russia, mentre Usa, Arabia Saudita e Israele che sono tutti alleati. Non è una questione di religione, ma di potere. Obama aveva cercato di porre fine alla tensione in questo scacchiere, con accordi più diplomatici. Mentre Trump ha annullato tutti gli sforzi di avvicinamento, stracciando l’accordo sul nucleare.
Guerra Usa-Iran | La storia in 900 parole
Il 3 gennaio 2020, dalla sua residenza di Mar-a-Lago, il presidente Donald Trump ha supervisionato l’operazione che ha portato all’uccisione di Qassem Soleimani, di Abu Mahdi al Muhandis, e degli altri militari legati all’Iran presenti nel convoglio in transito nei pressi dell’aeroporto della capitale irachena. La sua morte ha acuito le tensioni tra Stati Uniti e Iran, con implicazioni importanti in Medio Oriente.
Secondo le ricostruzioni, Trump avrebbe dato il via libera all’opzione presentatagli dal Pentagono già qualche giorno prima, dopo essersi consultato con il Segretario di Stato Mike Pompeo, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Robert O’Brien e altri membri dell’amministrazione. La decisione sarebbe stata presa alla luce dell’escalation di violenza registratasi a Baghdad proprio nel corso di novembre e dicembre 2019, culminata nell’assalto all’ambasciata statunitense condotto da miliziani iracheni collegati all’Iran, e nell’uccisione di un contractor statunitense. Già nella giornata precedente all’uccisione di Soleimani, del resto, il Segretario alla Difesa Mark Esper aveva avvertito della possibilità che gli Usa rispondessero alle provocazioni iraniane con “attacchi preventivi”.
La giustificazione ufficiale fornita dalla Casa Bianca è quella della “difesa preventiva” contro gli attacchi a obiettivi statunitensi che il generale Soleimani stava pianificando in Iraq. Un’accusa plausibile, ancorché impossibile da verificare, e dunque dalla dubbia legittimità giuridica: come ha fatto notare la Special Rapporteur Onu sulle esecuzioni extra-giudiziarie Agnes Callimard, gli omicidi mirati, attraverso droni, non trovano giustificazione nel diritto internazionale umanitario, oltre a presentare una seria sfida alla sovranità nazionale.
Nella notte tra martedì 7 e mercoledì 8 gennaio l’Iran ha lanciato 22 missili balistici contro due basi militari in Iraq che ospitano soldati americani, una è Ain al Asad, nella regione occidentale di al Anbar, è l’altra è vicino all’aeroporto internazionale di Erbil, nel nord del paese a maggioranza curda. I missili non hanno ucciso nessuno secondo le dichiarazioni del Pentagono e del governo iracheno (nelle basi ci sono molti soldati iracheni), ma questa mattina l’agenzia di stato iraniana parlava di “ottanta morti americani e duecento feriti”.
L’ayatollah Khamenei aveva promesso al popolo una vendetta per l’uccisione venerdì scorso del generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad e aveva parlato di un “nuovo Vietnam” per gli americani. I Guardiani della rivoluzione hanno dichiarato che “la vendetta feroce è cominciata”. Ma subito dopo il bombardamento il governo iraniano ha detto di avere concluso le operazioni di autodifesa e che se l’America non attacca non ce ne saranno altre e il presidente americano Donald Trump ha twittato che “va tutto bene”.
La risposta militare iraniana è stata premeditata nei tempi e nei modi: il 62enne Soleimani è stato ucciso esattamente alla stessa ora il 3 gennaio scorso in Iraq. Il lancio dei missili ha dato molto tempo ai soldati nelle basi prese di mira di mettersi al sicuro. Di fatto, è stata un’aggressione militare iraniana contro installazioni militari dell’Iraq, come del resto era già successo in questi mesi. Gli attacchi delle milizie filoiraniane alle basi che ospitano soldati americani hanno fatto molte più vittime fra i soldati iracheni che tra quelli stranieri. In questi giorni si era parlato di “terza guerra mondiale” per timore che ci fosse una escalation senza controllo tra i due paesi, ma per ora l’evento con più vittime reali è stato il funerale del generale Soleimani, perché almeno 35 persone sono morte nella calca.
Ad aggravare la situazione in Iran l’8 gennaio 2020 c’è stato anche un disastro aereo che ha provocato oltre 170 morti: anche se le autorità parlano di guasto tecnico, con il velivolo diretto a Kiev che è precipitato poco dopo il decollo, ancora sono tutte da chiarire le cause della sciagura mentre diverse compagnie aeree internazionali hanno sospeso i propri voli nella zona.
E adesso? Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha detto che “se gli Usa faranno qualunque altra azione, l’Iran risponderà adeguatamente e in maniera molto dura”.
Il generale Soleimani, 62 anni, era comandante delle forze speciali Al Quds, braccio armato dei Pasdaran per operazioni segrete all’estero, ed era considerato una delle figure chiave della strategia dell’Iran in Medio Oriente. Era molto vicino alla Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ed era considerato da alcuni il potenziale futuro leader dell’Iran.
L’ex agente Cia John Maguire aveva definito Soleimani “la persona operativa più potente in Medio Oriente”. Ma chi era il generale Soleimani? E perché è stato ucciso in un attacco ordinato direttamente dal presidente Usa Donald Trump?
Qassem Soleimani nasce l’11 marzo 1957 in una famiglia di contadini nel villaggio di Rabord, nella provincia di Kerman, vicino al confine con l’Afghanistan. Inizia a lavorare a soli 13 anni in una società idrica di Kerman, per ripagare i debiti del padre.
Quando compie 22 anni, Soleimani si arruola con le Guardie rivoluzionarie islamiche, nate per proteggere la repubblica degli ayatollah.
Durante la guerra con l’Iraq, tra il 1980 e il 1988, si distingue perché è capace di infiltrarsi nelle file nemiche per portare a termine operazioni ad alto rischio. Dal 1998 diventa comandante delle forze speciali Al Quds, che sotto la sua guida diventano sempre più influenti.
Negli ultimi vent’anni Soleimani è il regista di quasi tutte le più importanti operazioni militari dell’Iran, compresi il sostegno a Bashar al-Assad nella guerra civile in Siria, l’aiuto agli Hezbollah in Libano e gli attacchi agli americani durante la guerra in Iraq.
Il successore di Soleimani, il generale Esmail Qaani, ha una fama altrettanto fanatica e spietata.
Il contesto geopolitico in cui è avvenuta l’uccisione di Soleimani è particolare: il territorio dell’Iraq ospita sia la presenza statunitense che quella iraniana, ed entrambe le forze sono state impegnate nella lotta contro l’ISIS, e lo sono ancora anche se in misura molto minore. L’Iran e gli USA, però, sono due stati nemici da lungo tempo, ma soprattutto hanno visto un grande peggioramento dei loro rapporti a partire dall’elezione di Donald Trump, l’attuale presidente statunitense.
La crisi internazionale scatenata dall’uccisione del generale Soleimani è il simbolo dell’unilateralismo dell’amministrazione Trump. Un atteggiamento criticato non solo dal Congresso e dagli alleati europei, ma anche da importanti diplomatici bipartisan, perché ignora il multilateralismo e la condivisione delle decisioni. In una sola mossa, Trump è riuscito a unire sciiti e sunniti d’Iraq nell’odio verso l’America, a far votare il parlamento di Baghdad per l’espulsione delle truppe straniere dal paese, ad affossare il già traballante accordo sul nucleare iraniano, a radicalizzare molti moderati nella società iraniana, non solo rendendo il controverso generale un martire, ma anche con l’inaudita minaccia di colpire siti culturali persiani, un crimine di guerra. Infine, l’espulsione dall’Iraq delle truppe occidentali anti-Isis lascerà campo libero agli jihadisti sunniti, che si stanno già riorganizzando.
Gli Stati Uniti rimproverano all’Iran un disegno egemonico. Certamente una preoccupazione legittima per la minaccia ad Israele. Allo stesso tempo, questa critica perde un po’ di credibilità se avanzata da una superpotenza che schiera decine di migliaia di militari in più di 70 paesi e accusa altri di voler creare una sfera di influenza sugli stati vicini.
Gli attriti nei rapporti tra Usa e Iran risalgono a quando Donald Trump ha annunciato nel 2018 il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, patto politico particolarmente importante, definito da molti “storico”, con cui l’Iran avrebbe ridotto la sua capacità di raggiungere la costruzione di ordigni nucleari in cambio di una diminuzione delle sanzioni economiche.
L’accordo sul nucleare era pensato per ridurre le frizioni diplomatiche e militari tra Stati Uniti e Iran (attriti che risalgono alla fine degli anni settanta, alla Rivoluzione khomeinista) ma Trump l’ha fatto saltare. Allo stesso modo ad alcuni osservatori è sembrato illogico uccidere Soleimani, e poi, subito dopo, dire che lo si è fatto per evitare una guerra anche se nelle ore successive all’attacco si è chiesto il personale statunitense presente in Iraq a lasciare la zona di fretta, possibilmente usando l’aereo, per evitare ritorsioni. Un avviso che suggerisce che l’attacco deciso da Trump avrebbe messo in pericolo, e non al sicuro, sia la stabilità politica del Medio Oriente che le migliaia di soldati della coalizione presenti sul campo.
È indubbio che negli ultimi anni e mesi le milizie sciite sotto la direzione dell’Iran abbiano tentato di espandersi in Siria e Iraq, anche attaccando Israele e le forze Usa. Tuttavia, secondo il premier iracheno, Soleimani era arrivato a Baghdad per trattare con l’Arabia Saudita per diminuire le tensioni tra il fronte sciita e quello sunnita.
Nel calcolo strategico iraniano non può però non rientrare anche la consapevolezza che una risposta eccessiva potrebbe provocare una ulteriore risposta statunitense, precipitando i due paesi e l’intera regione in un’escalation senza uscita.
In questo senso, la minaccia formulata via twitter da Donald Trump di colpire 52 siti iraniani – come il numero dei diplomatici statunitensi presi in ostaggio a Teheran nel 1979 – in risposta all’eventuale rappresaglia iraniana per l’uccisione di Soleimani, rischia di dare adito a pericolosi errori di calcolo. Da una parte, con questa minaccia Trump vuole impedire che l’Iran risponda in maniera massiccia all’uccisione di Soleimani, e tale minaccia suona molto più credibile dopo che gli Usa hanno portato a termine quell’operazione; dall’altra però, la portata di tale minaccia è talmente grande da spingere l’Iran a chiedersi se Trump stia bluffando.
La regione del Golfo è ora esposta a una ulteriore ondata di instabilità che rischia di mettere seriamente in pericolo i pochi risultati raggiunti in questi anni.
Nell’attacco missilistico condotto da Teheran contro due basi statunitensi in Iraq nella notte tra martedì 7 e giovedì 8 gennaio non sono state registrate vittime o feriti tra i soldati italiani, come confermato dallo Stato Maggiore della Difesa (qui cosa sappiamo finora sul raid). Ad essere colpite sono state, in particolare, le basi di al-Asad, nell’Iraq occidentale, e quella di Erbil, nel Kurdistan iracheno.
In questa seconda area sono presenti anche soldati del contingente italiano, il quale fortunatamente non ha subito danni, neanche nelle strutture e nei mezzi che utilizza. “Al momento dell’attacco sono state messe in atto tutte le procedure di contingenza tese alla salvaguardia della sicurezza del contingente dislocato nell’area di Erbil”, si legge nella nota dello Stato Maggiore della Difesa.
I soldati italiani resteranno – almeno per il momento – in Iraq, nonostante l’acuirsi delle tensioni tra Usa e Iran dopo il raid statunitense in cui è stato ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani (qui il suo profilo). Ma la preoccupazione per l’escalation della crisi tra Teheran e Washington porta a porsi delle domande sulla situazione dei nostri militari.
Se la situazione dovesse scivolare in una vera e propria guerra è immaginabile che al fianco degli Stati Uniti si schiererebbe l’Arabia Saudita e Israele.
Al fianco dell’Iran, invece, si schiererebbero gli Hezbollah libanesi: il gruppo ha sempre garantito il proprio appoggio agli sciiti (che in Iran sono la stragrande maggioranza) ed è anche grazie al fatto di aver favorito questa alleanza che Soleimani aveva costruito la sua grande fama.
Alcuni Paesi che, sulla carta, sarebbero alleati di Trump. Tra questi c’è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, amico degli Usa ma che rappresenta anche un potenziale mediatore con l’Iran, al cui fianco è stato nei negoziati sulla Siria. Altro possibile mediatore è la Russia di Vladimir Putin, altro storico alleato di Trump che negli ultimi tempi ha lavorato con Turchia e Iran sempre nei negoziati sulla Siria.
Ma la stragrande degli attori mondiali ha deciso di non schierarsi nel possibile conflitto tra Usa e Iran.Come la Cina che rimane neutrale anche per non mettere a repentaglio il rinnovato dialogo con gli Usa sulla guerra commerciale.
L’Italia e l’Europa, infine, non si schierano e restano molto deboli nelle risposte rispetto alla violente tensioni in Medio Oriente.