Bou Craa, Sahara occidentale. Una lingua bianca, visibile persino dallo spazio, corre nel deserto per quasi cento chilometri. È il sistema di nastri trasportatori più lungo del mondo, che collega una grande miniera a cielo aperto di fosforite alla città costiera di El Marsa, vicino a Laayoune, nel territorio conteso dal 1975 tra il regno nordafricano e il popolo Saharawi, le cui rivendicazioni sono storicamente appoggiate dall’Algeria. Da qui, le rocce di fosfato estratte dal sottosuolo raggiungono i terreni agricoli di tutto il mondo, a un ritmo massimo di 2.000 tonnellate ogni ora.
È principalmente da questo materiale che si estrae il fosforo, che costituisce uno dei nutrienti chiave per la produzione di fertilizzanti agricoli, i cui prezzi sui mercati internazionali sono saliti alle stelle dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina. Perché? I tre quarti delle riserve mondiali sono concentrate in pochi giacimenti che si trovano per lo più in Cina, Stati Uniti, Russia e appunto nel Sahara occidentale occupato dal Marocco.
Secondo gli ultimi dati resi disponibili dallo US Geological Survey (Usgs), nel 2021 dalla regione sono state estratte quasi 38 milioni di tonnellate di rocce di fosfati, pari al 17 per cento della produzione globale, ed è proprio in questa remota zona desertica che si trova quasi il 70 per cento delle riserve mondiali di fosforite. Non solo: secondo l’ong Western Sahara Resource Watch, le aree occupate del Sahara occidentale contano anche su ricche zone per la pesca e possiedono il potenziale per generare abbastanza energia rinnovabile da alimentare l’intero Maghreb. Non stupisce allora che un territorio così inospitale sia oggetto di tanta avidità da parte delle potenze mondiali e che l’Europa non ne sia esclusa.
Risorse maledette
Per l’Unione europea, la fosforite figura infatti tra le “materie prime critiche”, ossia quei materiali di strategica importanza economica caratterizzati da un alto rischio di fornitura. Secondo gli ultimi dati trasmessi nel 2020 dalla Commissione al Parlamento europeo, il 24 per cento delle rocce di fosfato importate nel continente proviene da zone controllate dal Marocco, che è il principale fornitore dell’Unione, precedendo la Russia che occupa la seconda posizione con il 20 per cento.
In una situazione simile, esacerbata dalla guerra in Ucraina, è chiaro come il vecchio continente si trovi tra l’incudine e il martello a causa delle forniture limitate. Se nel 2021 la Cina ha smesso di esportare fosforite per alimentare la domanda interna di concimi, nello stesso anno per la Fao Mosca era ancora il terzo esportatore mondiale di fertilizzanti al fosforo e tutto è peggiorato con lo scoppio delle ostilità. Così secondo la Banca mondiale, i prezzi globali dei concimi chimici – arrivati a marzo ai massimi storici – erano cresciuti all’inizio del 2022 del 30 per cento annuo, a seguito di un aumento dell’80 per cento già registrato l’anno precedente. Malgrado gli accordi mediati dalla Turchia tra il Cremlino e Kiev sulle esportazioni agricole abbiano lievemente calmierato i prezzi, questi sono rimasti comunque ai massimi degli ultimi quindici anni. Sebbene il settore dei fertilizzanti non sia ancora stato inserito tra quelli oggetto di sanzioni contro Mosca, la loro importazione dalla Russia (cresciuta nel 2022) è infatti resa più costosa dalle altre misure introdotte in campo finanziario e dagli elevati premi assicurativi richiesti per il trasporto via nave. Come dire che, a prescindere dalle sanzioni, Rabat resta un fornitore insostituibile per l’Europa che, secondo le ultime stime, compra ormai il 40 per cento della fosforite dal regno africano. A tutto vantaggio del Marocco: soltanto nel primo primo trimestre del 2022, l’azienda statale Ocp, che estrae rocce di fosfati e produce fertilizzanti, ha registrato un fatturato di 24 miliardi di euro, in aumento del 77 per cento annuo, e per i prossimi quattro anni prevede un aumento della produzione del 50 per cento, la costruzione di una fabbrica di fertilizzanti e di un nuovo porto nel territorio occupato.
Ma se per l’Ue il Marocco è una fonte così importante di fosfati, al contempo e per gli stessi motivi la rivale Algeria – che da quasi 50 anni appoggia il Fronte Polisario per l’autodeterminazione del Sahara occidentale – è diventata un partner imprescindibile per l’approvvigionamento europeo e soprattutto italiano di gas. Nel corso del conflitto contro Kiev, il Paese africano è diventato il maggiore esportatore dell’Africa, fornendo l’11 per cento del gas naturale consumato nel vecchio continente (compresi oltre 25 miliardi di metri cubi esportati in Italia soltanto nel 2022). Tanto che la compagnia petrolifera statale Sonatrach (che ha anche una joint venture con la russa Gazprom) ha aumentato il fatturato di 16 miliardi di dollari dall’inizio della guerra in Ucraina. Tutto questo offre ad Algeri un potere di ricatto enorme che ha già dimostrato di saper usare per perseguire le proprie ambizioni. Nel novembre del 2021, a un anno dalla violazione marocchina del cessate il fuoco in Sahara occidentale in vigore dal 1991, l’Algeria ha smesso di esportare gas verso la Spagna tramite il gasdotto Gme che attraversa il Marocco.
Ma anche Rabat non è da meno: nel maggio dello stesso anno, quando la Spagna ha assicurato l’accesso alle cure ospedaliere al leader del Fronte Polisario Brahim Ghali, il Marocco ha reagito aprendo le frontiere con l’enclave spagnola di Ceuta, dove in pochi giorni si sono riversati quasi 10mila migranti. Da allora, le relazioni con Madrid sono sensibilmente migliorate, tanto che lo scorso marzo il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez ha pubblicato una lettera a sostegno dei piani del Marocco che prevedono un’autonomia limitata al territorio conteso del Sahara occidentale, una soluzione respinta dal Polisario, dall’Algeria e dall’Onu. Insomma, missione compiuta.
La corsa africana alle armi
Le divisioni tra Rabat e Algeri si riverberano da tempo sui vicini e si rispecchiano nei nascenti nuovi blocchi internazionali. Nel 2020, il regno africano ha ottenuto da Donald Trump il riconoscimento statunitense della sovranità marocchina sul Sahara occidentale, mentre ben 16 Paesi africani aprivano i propri consolati nelle città contese di Dakhla e Laayoune. Intanto (e forse in cambio), il Marocco ha aderito agli Accordi di Abramo normalizzando le relazioni con Israele, una mossa aspramente criticata dall’Algeria, che non è rimasta a guardare.
Nel novembre 2020, Algeri ha modificato la costituzione per consentire al governo di schierare le proprie forze armate all’estero e di partecipare alle missioni di pace promosse dalla Lega Araba, dalle Nazioni Unite e dall’Unione africana. Ed è proprio in quest’ultima sede che Algeri intende intervenire maggiormente per controbilanciare la crescente influenza di Rabat che, dopo aver lasciato l’organizzazione nel 1984 per protesta contro il riconoscimento dell’indipendenza saharawi, vi è rientrata nel 2017 sfruttandola a proprio vantaggio, come dimostrato dall’apertura delle decine di nuove rappresentanze diplomatiche africane nel territorio occupato.
Ma non basta: lo scorso ottobre, il presidente Abdelmadjid Tebboune ha riunito le fazioni palestinesi di Hamas e Fatah e il mese seguente ha ospitato un vertice della Lega araba, conclusosi con un comunicato velatamente critico nei confronti degli Accordi di Abramo. A novembre poi, l’Algeria ha chiesto l’adesione ai BRICS, il gruppo di economie emergenti che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, e il mese successivo ha firmato con Pechino un piano esecutivo per lo sviluppo della nuova Via della Seta. Tutte mosse non certo gradite non solo a Rabat ma neanche a Washington, che infatti ha continuato ad armare il Marocco.
Il regno è da anni il principale acquirente di armi statunitensi nel continente africano. Soltanto nell’ultimo decennio, Rabat ha acquistato caccia F-16, elicotteri Apache, droni di fabbricazione statunitense e sistemi di difesa aerea Patriot, nonché aerei da ricognizione G-550. Mentre la normalizzazione dei rapporti con Israele ha permesso al Paese di acquisire altri droni, aerei e sistemi per la guerra cibernetica.
Per tutta risposta, l’Algeria ha aumentato le spese militari per il 2023 fino al 20 per cento del bilancio statale, portandole a 22 su 90 miliardi di dollari, gran parte dei quali potrebbero finire nelle casse di Mosca. L’annunciata (e non ancora fissata) visita del presidente Tebboune in Russia, dove è stato invitato da Vladimir Putin, potrebbe infatti tradursi in una commessa militare miliardaria. D’altra parte, l’ultima volta che un capo di Stato algerino si recò a Mosca, ormai quasi 15 anni fa ed era l’ex presidente Abdelaziz Bouteflika, i due Paesi firmarono accordi per la difesa da 7,5 miliardi di dollari e il leader del Cremlino condonò ad Algeri fino a 4,5 miliardi di dollari di debiti contratti con l’Urss negli anni Settanta. Tutto questo senza contare che l’Algeria possiede già uno dei più numerosi eserciti permanenti del continente, acquista l’81 per cento delle sue armi da Mosca ed è il terzo importatore mondiale di armi russe. Ma i soldi a quanto pare non sono un problema.
Grazie all’impennata dei prezzi energetici e alla necessità europea di cambiare fornitori, secondo il Fondo monetario internazionale, nel 2022 Algeri ha registrato il suo primo avanzo di bilancio in nove anni, portando le riserve internazionali da 46,7 a 53,5 miliardi di dollari. La situazione è così florida che negli ultimi due anni il Paese ha persino offerto due prestiti da 300 milioni di dollari alla vicina Tunisia. Tanto a pagare siamo noi.
Ma l’Italia scherza col fuoco
Gas, metanodotti, cooperazione. La visita di Giorgia Meloni ad Algeri si è chiusa lo scorso mese con una conferenza stampa con il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune in cui a fare la parte del leone sono stati i temi energetici. Tanto che tutti i giornali hanno titolato sulla volontà del nostro Paese di diventare un «hub energetico europeo», slogan ripetuto dopo la visita della premier in Libia e l’accordo da 8 miliardi di dollari siglato dall’Eni. In pochi però si sono soffermati sulla contropartita politica, il cui prezzo continua a salire sin dagli accordi stipulati durante le due visite in Algeria di Mario Draghi, che si è assicurato l’impegno del Paese africano ad aumentare rapidamente le esportazioni di gas per sopperire alla mancanza di approvvigionamenti dalla Russia.
Non a caso il capo di Stato algerino ha aperto l’incontro con la stampa segnalando la convergenza tra Algeri e Roma sulla questione del Sahara occidentale. «Concordiamo – ha detto – sulla necessità di fornire supporto all’inviato dell’Onu Staffan de Mistura e alla missione Minurso per l’organizzazione di un referendum» nel territorio occupato dal Marocco. Meloni invece, da sempre politicamente sensibile alla questione, si è soffermata più sulla cooperazione senza aggiungere ulteriori commenti.
D’altronde il tema centrale non poteva essere che l’energia: prima della guerra in Ucraina, il 40 per cento delle importazioni italiane di gas proveniva dalla Russia, una percentuale scesa lo scorso ottobre al 10 per cento, mentre le importazioni dall’Algeria sono aumentate del 20 per cento nello stesso periodo.
L’accento posto sulla questione del Sahara occidentale non è comunque una novità per la nostra diplomazia: già nel novembre 2021, durante la sua visita in Algeria, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva rimarcato al quotidiano locale El Moudjahid l’importanza «di una soluzione equa e duratura, che tenga debitamente conto dei diritti del popolo Saharawi». «In questo contesto – aveva detto il capo dello Stato – sosteniamo il ruolo dell’Algeria e il suo attaccamento al quadro delle Nazioni Unite sul Sahara occidentale». Nonostante tutto però Roma è sempre riuscita a mantenere una posizione equilibrata tra Rabat e Algeri, che non compromettesse gli affari.
Tanto è vero che, secondo un rapporto del 2021 del Centre d’Etudes et de Documentation Franco-Saharaoui Ahmed Baba Miske, l’Italia figura tra «i trenta Paesi che investono nei territori occupati del Sahara occidentale». In particolare, il documento cita Enel, Italgen, Italcementi e GE Oil & Gas, impegnate a vario titolo soprattutto in una serie di parchi eolici nella zona occupata di Laayoune.
Tuttavia, è sembrato ricordare Tebboune, se vogliamo assicurarci le forniture di gas, alle parole dovranno seguire i fatti e per questo Giorgia Meloni potrebbe essere la persona giusta. Sin da giovane, la premier si è interessata alla questione e ne ha parlato anche nella sua recente biografia “Io sono Giorgia”. Nel testo dedica diverse pagine al problema del Sahara occidentale e in un passaggio ricorda i «dieci giorni indimenticabili» trascorsi a Tindouf, in Algeria, dove sono ospitati migliaia di rifugiati che non hanno accettato di vivere sotto la sovranità del Marocco. All’epoca, Meloni era ancora consigliere della provincia di Roma e beveva il tè con le donne sahrawi. Una circostanza ricordata da tutti i media marocchini all’epoca della vittoria elettorale del settembre scorso. Insomma, tra Algeri e Rabat, Roma fa un gioco molto pericoloso e non da oggi.