Nonostante un anno di guerra alle spalle, e centinaia di migliaia di vittime, ci sono ancora in giro Dottor Stranamore. Analizzando le parole e gli atti del presidente russo Vladimir Putin, esperti americani ed europei temono che la Russia, oltre a preparare un’offensiva di primavera sul terreno, voglia imporre un’escalation al conflitto e punti ad allargarlo alla Moldavia, dove l’entità autonoma filo-russa della Transnistria offre un’opportunità di reciproche provocazioni. E il presidente ucraino Volodymyr Zelensky trova sempre occasione per rilanciare il carattere irriducibile della resistenza del suo popolo. Domenica 26 febbraio, nell’anniversario dell’annessione della Crimea da parte della Russia – era il 2014 –, scriveva su Telegram: «Ripristineremo la pace nella Penisola. Quella è la nostra terra». Il Dipartimento di Stato Usa gli andava in scia: «Non riconosceremo mai la presunta annessione russa», nonostante i militari statunitensi ritengano molto difficile che l’Ucraina riprenda la Crimea (e anche che rigetti al di là dei propri confini le truppe d’occupazione russe).
La Russia non sta sulle sue: la marina torna a farsi vedere in forze e minacciosa nel Mar Nero, oltre che nel Baltico e nel Mediterraneo. E il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov replica a Zelensky: «Impossibile che la Crimea torni ucraina: è parte integrante della Russia».
Chi sperava che la diplomazia si aprisse un varco, passata la sbornia bellicista della settimana dell’anniversario della guerra intessuta di dichiarazioni nazionaliste e aggressive – le russe – o nazionaliste e oltranziste – le ucraine –, non trova, per ora, conforto: l’accoglienza riservata al piano di pace cinese in 12 punti – Pechino lo chiama senza ambizioni “position paper” – è tiepida, anzi fredda. Si direbbe quasi che gli Stati Uniti, da quando la Cina è uscita dalla fase di non ingerenza nella crisi ucraina, facciano di tutto per peggiorare i rapporti con Pechino: rafforzano uomini e mezzi del sostegno militare a Taiwan; e, secondo il Wall Street Journal, ridanno credito alla tesi, finora negata, che il Covid-19 sia “sfuggito” a un laboratorio cinese. In sottofondo, il ritornello, che torna con insistenza da più parti, anche su Der Spiegel, che la Cina starebbe valutando se fornire alla Russia droni e artiglierie. L’aiuto cinese potrebbe consentire alle forze russe di «sventare la controffensiva ucraina quest’estate», quando le truppe di Kiev disporranno dei carri occidentali.
Quanto all’Unione europea, batte sul tasto delle sanzioni: ha appena varato il suo decimo pacchetto di misure anti-Russia e già lavora al prossimo. L’idea che per avvicinare la pace bisogna perpetrare la guerra resta prevalente nello spirito dei contendenti e nelle diplomazie occidentali, refrattarie – Vaticano a parte – a dare priorità alla cessazione delle ostilità e al risparmio di vite umane; e impermeabili al dissenso di quasi la metà della popolazione mondiale. Il voto all’Onu sulla mozione del 23 febbraio e i dissensi in seno al G20 nella riunione del 25 febbraio a Bangalore mostrano che Cina e India non sono isolate nella ricerca di nuovi equilibri internazionali e di un nuovo ordine mondiale. A gioco lungo, antagonizzarle può non essere la scelta migliore.
Fermenti diplomatici
Certo, ci sono pure segnali di segno opposto. Ma metterli insieme è aleatorio. Il presidente cinese Xi Jinping potrebbe recarsi a Mosca nelle prossime settimane – i russi caldeggiano la visita, i cinesi restano vaghi –, Zelensky si dice pronto a incontrarlo. Il presidente francese Emmanuel Macron annuncia che andrà in Cina a inizio aprile per chiedere a Pechino di «aiutarci a fare pressione sulla Russia» per «fermare l’aggressione» e «costruire la pace».
E il Wall Street Journal, all’avanguardia dell’informazione nei giorni scorsi, ipotizza un baratto che Regno Unito, Germania e Francia potrebbero proporre a Zelensky, partendo dalla constatazione, condivisa dai militari occidentali, che è difficile che Kiev riconquisti tutti i territori perduti: maggiori garanzie di sicurezza Nato in cambio di un’apertura all’avvio di negoziati con la Russia.
L’articolo del WSJ parte dalle parole del premier britannico Rishi Sunak, che, dopo avere ricevuto Zelensky a Londra l’8 febbraio, ipotizzò un’intesa per dare all’Ucraina, una volta finita la guerra, maggiore accesso a equipaggiamenti militari di ultima generazione. Se ne parlerà, forse, al vertice della Nato a Vilnius l’11 e 12 luglio. Resta da vedere se il progetto possa piacere a Zelensky e pure a Putin, che potrebbe però apprezzare il fatto che esso non contempla una vera e propria adesione dell’Ucraina alla Nato.
Quel vertice dovrebbe pure sancire l’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia, frutto della paura che l’aggressione della Russia all’Ucraina ha suscitato anche in Paesi tradizionalmente neutrali e fieri d’esserlo. Il condizionale è funzione del veto di Ankara, legato a rivendicazioni sul trattamento che Stoccolma e Helsinki giustamente riservano ai curdi loro rifugiati e che difficilmente cadrà prima delle presidenziali in Turchia del 14 maggio, specie ora che il devastante terremoto del 6 febbraio offusca la popolarità del presidente Recep Tayyip Erdogan.
Un certo fermento diplomatico pare esserci. ll ministro degli Esteri di Kiev Dmytro Kuleba, di solito un “falco”, giudica il documento cinese, che chiede colloqui di pace e una “soluzione politica” del conflitto ucraino, “importante”: «Vi sono vari elementi su cui siamo d’accordo, ma almeno uno su cui non siamo d’accordo, e cioè la richiesta della fine delle sanzioni» contro Mosca. La dialettica è vivace anche in campo ucraino: il consigliere di Zelensky, Mykailo Podolyak, giudica «irrealistico» l’approccio cinese, che – dice – «scommette su un aggressore che ha violato la legge internazionale e che perderà la guerra»; ma poi non affida la liberazione della Crimea a un’azione bellica, ma la colloca nel contesto di negoziati sul futuro assetto russo-ucraino.
Del resto, neppure il campo russo è privo di fluttuazioni. La leadership di Putin non è in bilico, tranne che in qualche elucubrazione occidentale, ma c’è chi gli fa da falco, come il suo ex sosia Dmitry Medvedev, che con le sue sortire nucleari e apocalittiche lo fa apparire un moderato; e c’è chi lo critica, se non lo antagonizza, come il capo dei mercenari Wagner Evgheni Prigozhin, e, meno, il leader ceceno Ramzan Kadyrov, che se la prende soprattutto con i generali e la Difesa. Mosca non sbatte la porta in faccia a Pechino, ma Putin non si getta neppure tra le braccia di Xi: Peskov impegna il Cremlino a studiare «con grande attenzione» il piano cinese, ma avverte che sarà «un processo lungo», perché «in questo momento non ci sono le premesse per sviluppi pacifici».
Il mezzo-falco Biden
Non le creano di sicuro gli Stati Uniti. In un’intervista alla Abc, il presidente Usa Joe Biden dice, infatti, del piano cinese: «Se a Putin piace, come può essere buono? … Dentro, ci sono vantaggi solo per la Russia…». E definisce «non razionale» l’idea che la Cina «negozi l’esito di una guerra totalmente ingiusta per l’Ucraina». Come se, in tutto l’anno di conflitto trascorso, l’Occidente non abbia ripetutamente sollecitato la Cina a mediare.
Più volte in passato, Macron, spesso in tandem con il cancelliere tedesco Olaf Scholz, è stato il più attivo fra i leader occidentali nel cercare un dialogo con Putin. Ora giudica «molto positivo» il fatto che la Cina «s’impegni in sforzi di pace»: chiede a Pechino di «non dare armi alla Russia» e di «fare pressione sulla Russia perché non usi mai armi chimiche o nucleari e cessi l’aggressione come precondizione ai negoziati». Per Macron, la pace è «possibile solo con la fine dell’aggressione russa, il ritiro delle truppe e il rispetto della sovranità territoriale e del popolo ucraini».
Biden usa toni più da confronto che da dialogo: gli Usa, dice, «risponderebbero» se la Cina desse armi alla Russia, pur ammettendo che non ci sono prove che Pechino intende farlo. Se lo facesse, «supererebbe un limite che, quando altri hanno superato, abbiamo loro imposto sanzioni durissime». Biden ne ha già parlato con il presidente Xi: «Gli dissi di stare attento, ché il futuro della Cina dipende dagli investimenti occidentali».
Quanto ai caccia F-16, che Zelensky chiede da tempo, il presidente Usa dice che «l’Ucraina non ne ha ora bisogno»: «Per il momento escludo di darglieli». Al giornalista della Abc che chiede se ciò significhi «mai», Biden risponde: «Non si può stabilire esattamente di che cosa l’Ucraina avrà bisogno per difendersi in futuro … Ma ora, secondo le valutazioni dei nostri militari, non c’è nessuna ragione per darle gli F-16». Ma qualcuno al Congresso la pensa diversamente: se non altro per mettere il bastone tra le ruote all’amministrazione democratica, i repubblicani alla Camera annunciano un’iniziativa del presidente della Commissione Esteri, Michael McCaul, perché Biden fornisca a Kiev armi più avanzate, missili a lungo raggio e aerei. La Camera non ha realmente potere in merito, ma il segnale è più politico che operativo.
Bruxelles all’angolo
A parte le sortite diplomatiche, per ora lessicali, di Macron, l’Unione europea, sul fronte ucraino, è arroccata nell’angolo delle sanzioni: ha adottato il suo decimo pacchetto di misure anti-Russia dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Colpiscono 121 persone ed entità e «comportano nuove e significative restrizioni all’import/export e divieti di diffusione della propaganda russa». L’annuncio è stato dato il 25 febbraio dal capo della diplomazia europea Josep Borrell, dopo che l’intesa fra i 27, delineatasi nella notte, era stata formalmente approvata in procedura scritta.
Borrell commenta: «Rimaniamo uniti nella nostra determinazione a intaccare la macchina da guerra della Russia». La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen gli va in scia: «Così riduciamo l’arsenale della Russia». E il presidente del Consiglio europeo Charles Michel va oltre: «Così blocchiamo la macchina da guerra della Russia». Ma, da Kiev, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky chiede di più: «La pressione delle sanzioni dell’Ue deve aumentare».
Fra le persone e le entità colpite, vi sono – indica Borrell – 11 individui e otto organizzazioni legate al gruppo di mercenari Wagner; ed anche «i responsabili della deportazione e dell’adozione forzata di almeno 6.000 bambini ucraini», uno dei drammi nel dramma del conflitto.
La presidenza di turno svedese del Consiglio dell’Ue, artefice dell’intesa con trattative bilaterali, specifica che le sanzioni includono «restrizioni più severe per l’export di dual use e tecnologia», cioè hardware e software che possono avere applicazioni sia civili che militari. «L’Ue è unita accanto all’Ucraina e al popolo ucraino – afferma la Svezia –. Continueremo a sostenerla, finché sarà necessario».
L’accordo, che l’Ue avrebbe voluto adottare il 24 febbraio, nell’anniversario dell’invasione, è invece slittato di un giorno ed è stato raggiunto dopo che la Polonia ha tolto il proprio veto, avendo però ottenuto sei impegni per le prossime sanzioni, fra cui la messa a punto di misure sui diamanti e «ulteriori intensi lavori sul settore nucleare».
Sulla questione della gomma sintetica, su cui Polonia e Italia si sono trovate su fronti opposti, l’intesa fra i 27 prevede la messa a punto di un meccanismo di controllo sull’import per valutare, ogni trimestre, il grado di diversificazione (rispetto alla gomma russa) raggiunto dagli Stati membri.
Intanto, la Russia ha cessato di fornire petrolio alla Polonia tramite l’oleodotto Druzhba. Si ignora se la misura sia connessa alle nuove sanzioni. Le autorità polacche dicono che la mossa non avrà impatto, pur se il Paese resta dipendente al 10 per cento dalla Russia per l’approvvigionamento di petrolio.
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