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    “Quella in Ucraina è anche una guerra mediatica”: parla l’esperto di comunicazione strategica

    Di Veronica Di Benedetto Montaccini
    Pubblicato il 8 Apr. 2022 alle 17:37 Aggiornato il 9 Apr. 2022 alle 11:00

    Il modo in cui i giornalisti stanno raccontando la guerra in Ucraina divide l’opinione pubblica: alcuni eventi vengono strumentalizzati da entrambe le parti, le informazioni sono parziali e siamo di fronte a un contesto bellico in cui gli smartphone diventavo “armi” che immortalano ogni istante del conflitto e consentono a tutti di osservare, in tempo reale, la guerra in tutte le sue facce. Per comprendere meglio queste dinamiche, TPI ha intervistato Michele Zizza, esperto di comunicazione strategica. Docente di culture digitali e social media all’Università di Viterbo e dottorando di ricerca al Dipartimento CoRiS della Sapienza. Da sempre segue gli studi Stratcom (Strategic Communication Centre of Excellence) in ambito Nato e Ue.

    Questa è una guerra anche mediatica?

    «Sì, perché si stanno destinando tantissimi sforzi sull’aspetto della comunicazione e dell’informazione. E questo è vero per entrambe le parti in causa, cioè Ucraina e Russia».

    Cioé?

    «Questo fenomeno in realtà è partito già da diverso tempo. Dal 2014 sono state messe in atto delle campagne mediatiche, delle azioni con obiettivi precisi. La Russia lo stava facendo nel Donbass e nella regione della Crimea ben prima dello scoppio di questo conflitto. La Nato ovviamente ne era a conoscenza, e stava facendo una controffensiva mediatica con fact-checking e debunking. Campagne di disinformazione sono state portate avanti dalla Russia anche sul Covid».

    Disinformazione e censura vanno di pari passo?

    «La Russia è arrivata a censurare le piattaforme di comunicazione perché non ne aveva il controllo. Ad esempio Telegram e WeChat – che è cinese – non sono state chiuse perché dalle analisi statistiche è risultato esserci un pubblico filo russo preponderante».

    I social che ruolo giocano quindi in questo conflitto?

    «Sono cruciali e lo saranno anche nei futuri conflitti e scenari. Come ha teorizzato la studiosa José Van Dijck, viamo nella ‘platform society’, la società delle piattaforme. Sono il luogo dove crescono le comunità di cittadini, sono l’ambiente on-life, a metà strada tra virtuale e reale».

    Secondo lei i giornalisti occidentali come la stanno raccontando questa guerra?

    «Così come è successo per i vaccini e per la pandemia, anche questa volta il dibattito si è polarizzato, ha perso la sua complessità. Sembra una partita tra chi è più atlantista e chi è più filo-Putin. Quando non è così, non ci sono le tifoserie nel racconto della complessità. E le piattaforme sono parte di questo schema: lì si può ‘tifare’, parteggiare per l’una o per l’altra fazione con commenti e reactions».

    Difficile non perdersi tra le opinioni e restare sui fatti…

    «Il fatto deve rimanere tale. Correlato dai sui dati scientifici: le comparazioni, i frame video, le fonti come telecamere a circuito chiuso, i satelliti. Nelle situazioni complicate come questa guerra tutti questi dati vengono analizzati anche dal mondo accademico e in sede dibattimentale dagli organi internazionali, dalle corti umanitarie o europee. Una reportistica scientifica e precisa è fondamentale per arrivare quanto più vicino possibile alla verità».

    Analizziamo due fatti in particolare: il primo è la storia di Marianna Vyscemyrska, la ragazza incinta scappata dal bombardamento di Mariupol e divenuta simbolo. Ora è riapparsa in un video pubblicato dai media russi e gli ucraini pensano sia stata rapita. Anche una singola persona può venire strumentalizzata?

    «Questo evento specifico sottolinea l’utilizzo da parte di entrambe le realtà della disinformazione. Va ricordato che si agisce in un contesto storico che è quello della post-truth, la post verità che non si basa tanto sulla verità del fatto, ma piuttosto sulla reazione che genera nel pubblico che legge quel fatto. Si narra quindi un evento nella sua tragicità anche per creare proselitismo».

    Cioè?

    «Anche Zelensky lo fa: con certe narrazioni porta l’occidente dalla sua parte, reclutando – come dicevamo – tifosi più che persone semplicemente informate».

    Secondo fatto da analizzare: il caso di Bucha. L’Ucraina parla di genocidio, la Russia di messa in scena…Ma le prove di un genocidio di massa sono sempre maggiori.

    «Come dicevo, i metadati, i satelliti e altri strumenti saranno inequivocabili nella ricostruzione dei fatti e per avere una fotografia precisa dell’episodio. Oggi siamo di fronte a un fenomeno importante da analizzare: non ci sono solo i giornalisti sul campo, ma anche ogni militare, ogni civile che si trova sul posto imbraccia un telefonino. Uno smartphone per raccontare il suo ‘pezzetto di realtà’. Il citizen journalism va in guerra. Ma questa volta anche questi saranno prove e dati».

    Cos’è Stratcomcoe?

    «Stratcomcoe sta per Strategic Communication Centre of Excellence. Ricercatori esterni e interni lavorano in sinergia per produrre report e pubblicazioni che descrivono i processi della comunicazione e del relativo comportamento sociale. Vengono monitorate le attività di informazione e comunicazione che possono rivelare un fine di ingerenza, influenza o di destabilizzazione degli equilibri di una democrazia. In questi giorni il lavoro è alacre e si stanno raccogliendo tantissimi dati. È un prezioso lavoro che si basa su metodologie scientifiche e serve a prevenire e rintracciare minacce concrete verso i Paesi membri della Nato».

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