La linea di confine è un grande portone a vetri di una stazione ferroviaria dal nome impronunciabile: Przemyśl, estremo lembo sudoccidentale della Polonia. Se la varchi sei in Europa. Se non la passi sei ancora nell’inferno dei vivi di Kharkiv, Kiev, Zytomir e molte altre città della terra di mezzo. Profughi ucraini. O rifugiati se preferite. Persone, anzitutto. Con le loro storie spremute nelle poche cose che si sono potuti portare dietro, le uniche che una fuga su due piedi abbia consentito: uno zainetto, una borsa di tessuto non tessuto, per i più temerari la gabbietta del gatto.
Basterebbe anche solo il frastuono delle loro voci, che si accalcano quasi più dei loro corpi stanchi, ognuna con la propria richiesta – dove posso mangiare, qualcuno ha una giacca più pesante, avete un teddy bear per Olga, tre anni – per dare l’idea di cosa possa voler dire lasciare tutto, in un prima e un dopo lungo il tempo di una sirena. C’è un elemento distonico in questo nuovo benchmark della disperazione umana. Una pietra di paragone che avevamo sopito almeno dalle guerre dei Balcani. Un forte istinto di proiezione, di immedesimazione, dell’in fondo potremmo esserci noi, al posto loro. E infatti i confini d’Europa, anche quelli interni, che scritti non sono più, ma che alla bisogna di fatto restano in piedi, questa volta si aprono per accogliere la nuova, enorme massa di rifugiati, regalo di quasi primavera del neozar di tutte le Russie, Vladimir Putin.
«Sono così stanca: tre giorni di cammino a piedi solo con questo zainetto e queste scarpe da ginnastica», bisbiglia che quasi non la sento Ela. «Abbiamo lasciato la nostra casa a Kiev, sulla strada che porta a Leopoli, ma la coda di auto era così lunga che io e la mia amica Svetlana abbiamo preferito fare a piedi gli ultimi venticinque chilometri. Un incubo», dice mentre ha le mani rosse dal freddo e certe borse sotto gli occhi che arrivano fino agli zigomi. Sono sedute a terra, queste due ragazze. Aspettano che a raggiungerle siano i fidanzati. Ma per loro le speranze di uscire dal Paese sono pochissime. Le classi di coscrizione tra i 18 e i 60 sono precettate per difendere la patria dall’aggressore russo. Ma non è un problema per Vasily, 58 anni, che in Polonia lavora per un’azienda di IT, sguardo acceso e fiero, mentre mi apre un borsone nero e tira fuori decine di walkie talkie che paiono giocattoli.
«Funzionano da Dio e possono essere utili alle unità di difesa territoriale», che da queste parti sono le migliaia di civili, uomini e donne, che per settimane si sono addestrati a sparare e a muoversi da cecchini, tenendo sempre puntato il nemico, nelle centinaia di training camps che si sono svolti in tutta l’Ucraina. Così, mentre Vasily sta aspettando un treno per poter tornare a combattere, Arthur, polacco, se ne sta fermo immobile al centro dell’atrio, con un grande cartello che s’è fatto in casa e da dove offre un passaggio per Cracovia. «È il minimo che potessi fare in questa situazione. Si tratta di esseri umani. Ne carico due o tre al massimo, poi dritto per 327 chilometri a Cracovia, quattro ore e quaranta minuti», mi racconta come fosse quasi inopportuna la domanda che gli chiedeva conto di chi glielo facesse fare, con una moglie e tre figli, in novanta metri quadrati. Nel lungo corridoio che immette al ristorante liberty qualcuno ha appeso sul muro un annuncio solo in cirillico: offro lavoro come badante per persone molto anziane. Perché poi, vista da qui, l’Europa che tanto anelano chissà se sarà davvero in grado di offrire loro il futuro che hanno in mente, divisa e indebolita com’è, anemica di leadership ma prodiga di promesse…
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