Jon B. Wolfstahl conosce personalmente Joe Biden ed è uno dei pochi a sapere come la pensa il presidente degli Stati Uniti sulle armi atomiche. Non solo perché tra il 2009 e il 2012, quando l’attuale inquilino della Casa bianca era vicepresidente, è stato suo consigliere speciale per la non proliferazione e la sicurezza nucleare.
Ma anche perché qualche anno più tardi, nel 2016, quando ormai era stato nominato assistente speciale per la sicurezza nazionale del presidente Barack Obama (ruolo che ricoprirà fino al 2017), partecipò a un’esercitazione molto particolare. A dire la verità, i “war game” organizzati per la Casa bianca furono due: uno a livello di segretari di gabinetto e l’altro per i loro vice.
La simulazione prevedeva un attacco atomico della Russia contro la Nato e l’obiettivo era capire come affrontare la questione ai vertici Usa. Cosa consigliare al presidente? Quali opzioni valutare e quali no? E ovviamente, la domanda che tutti ci poniamo: Washington dovrebbe rispondere con un contrattacco nucleare a un eventuale bombardamento atomico russo? «È importante comprendere che quell’esercitazione non era pensata per risolvere il dilemma su come avremmo effettivamente risposto», spiega a TPI l’ex funzionario, che oggi lavora come consulente per la campagna Global Zero a favore dell’eliminazione delle armi nucleari ed è membro del Science & Security Board del Bulletin of the Atomic Sciences.
Ma fu una miniera di informazioni da cui possiamo trarre alcune lezioni per la guerra in Ucraina. In primis su cosa farebbe Biden in caso di attacco nucleare di Putin: «Stando ai nostri colloqui sull’argomento – ricorda Wolfstahl – era piuttosto scettico sul ricorso alle armi atomiche, a meno che non fossero necessarie a livello militare per vincere il conflitto».
«Serviva a verificare le capacità dell’amministrazione di comunicare internamente durante una crisi nucleare e in particolare, per assicurarci che il sistema funzionasse, a testare come contattare il presidente e i funzionari più alti in grado, in piena notte e senza preavviso. Affinché tutto ciò fosse veramente efficace, dovevamo però passare attraverso un’esercitazione realistica per vedere come avremmo discusso di queste problematiche e di quanto tempo avremmo avuto bisogno. Ed è stato molto utile per capire in che modo avremmo potuto rispondere e come la pensavano al riguardo i componenti dell’amministrazione».
Qual era lo scenario?
«Una guerra convenzionale in cui la Russia aveva attaccato uno dei Paesi Baltici, provocando l’intervento diretto degli Stati Uniti e degli altri membri della Nato. Dopo alcune settimane, Mosca cominciava a subire pesanti perdite in battaglia e a dubitare delle proprie possibilità di vittoria, così Putin decideva di lanciare una bomba nucleare contro una base dell’Alleanza in Europa. A quel punto la domanda era: che fare?».
«La discussione si concentrò immediatamente sulla domanda: gli Stati Uniti hanno bisogno di usare un’arma nucleare per prevalere in un conflitto? La risposta dei militari fu chiara: no, anche perché l’attacco russo non avrebbe pregiudicato le capacità della Nato di rispondere con un’operazione convenzionale per liberare i Baltici. A noi spettava il compito di valutare i pro e i contro e quindi le domande da porsi erano altre».
Quali?
«Ci chiedemmo come gli Usa potevano chiarire al Cremlino che Mosca non avrebbe ricavato alcun vantaggio da un attacco simile. A quel punto il dubbio era: tale risposta avrebbe dovuto contemplare anche l’opzione atomica? E come avrebbero reagito i nostri alleati? Per decenni abbiamo promesso loro che, in caso di attacco nucleare, avevamo il diritto e la capacità di rispondere».
«Alcuni pensavano che se gli Stati Uniti non avessero risposto a un attacco atomico con un’arma nucleare sarebbero accadute due cose molto spiacevoli. In primis, i nostri alleati non avrebbero più creduto alla promessa che li avremmo difesi. In secondo luogo, in mancanza di un contrattacco di pari potenza, avremmo perso ogni forma di deterrenza contro la Russia. In quello scenario, Mosca aveva rotto il tabù nucleare e chiaramente dubitava della nostra capacità o volontà di rispondere. Se non lo avessimo fatto, avrebbero lanciato un’altra bomba».
«Sì e si basavano su tre punti fondamentali: non bisogna ricorrere al nucleare se la situazione militare non lo richiede; rinunciare a un contrattacco atomico dimostrerebbe la superiorità morale rispetto all’aggressore, facilitandone l’isolamento politico ed economico e aumentando il sostegno degli alleati per una controffensiva convenzionale; un attacco nucleare degli Usa avrebbe scatenato la risposta di Putin».
«C’erano tre possibili obiettivi. Per prima cosa avremmo potuto bombardare le truppe di Putin nei Baltici, ma questo avrebbe comportato un attacco nucleare sul territorio di un membro della Nato e non è certo quello che si aspettano i nostri alleati. Oppure avremmo potuto attaccare direttamente la Russia, magari a Kaliningrad, ma in questo caso Putin l’avrebbe considerata un’escalation visto che in quello scenario Mosca non aveva aggredito direttamente gli Usa. Infine, avremmo potuto bombardare un alleato del Cremlino, magari la Bielorussia».
«Avrebbe dato un segnale agli alleati e ai nemici: manteniamo le promesse ma senza rischiare un’escalation».
«Non fu proprio una raccomandazione ma, come poi è emerso, in caso di risposta a un attacco nucleare russo l’opzione preferita sarebbe stata un bombardamento atomico in Bielorussia. Resta però una questione irrisolta perché questa fu una conclusione di noi vice, che trasmettemmo ai nostri superiori».
«Non diedero alcun parere. Si limitarono a presentare i pro e i contro, perché solo il presidente (allora era Barack Obama, ndr) può prendere una decisione in questo senso. Ci fu poi un’altra esercitazione in cui i funzionari più alti in grado simulavano una chiamata al presidente da parte della National Nuclear Command Conference dallo United States Strategic Command. Ma non ci fu alcuna discussione nel merito».
«Da noi si dice: “Con chi ti schieri dipende da che posizione occupi”. È una questione di burocrazia: chi collabora con le forze armate è meno sensibile alla diplomazia mentre chi si occupa di economia è meno interessato al risvolto militare. Al contrario, chi lavora al dipartimento di Stato si preoccupa molto meno dell’economia, etc. Ed è esattamente quello che successe in quell’esercitazione: lo Stato maggiore e il dipartimento della Difesa erano a favore del ricorso alle armi nucleari per rassicurare gli alleati. Il dipartimento del Tesoro e le agenzie di intelligence invece perseguivano altri mezzi. Il dipartimento di Stato invece era spaccato perché tra i loro compiti c’è mantenere i rapporti con gli alleati, ma anche proporre sanzioni alternative all’intervento militare».
«Allora Colin Kahl lavorava come consigliere per la sicurezza nazionale del vicepresidente Joe Biden (l’attuale presidente degli Usa, ndr). L’ufficio del vicepresidente non ha compiti specifici come i dipartimenti che citavo prima ed era più propenso alla discussione delle diverse opzioni. La sua posizione era contraria al ricorso al nucleare: perché rischiare un’escalation se possiamo ottenere ciò che vogliamo con altri mezzi? Anche il dipartimento del Tesoro era contrario».
Ricorda qualche nome?
«L’allora segretario al Tesoro Jack (Jacob, ndr) Lew e l’allora sottosegretario al Tesoro per il terrorismo e l’intelligence finanziaria, Adam Szubin, erano entrambi molto attivi nel sostenere che sarebbe stato meglio rinunciare a una risposta nucleare».
E Joe Biden che ne pensava?
«Il vicepresidente non era personalmente presente all’esercitazione ma, per esperienza e stando ai nostri colloqui sull’argomento, era piuttosto scettico sul ricorso alle armi nucleari a meno che non fossero necessarie a livello militare per vincere il conflitto. Una risposta di quel genere produrrebbe forse qualche vantaggio ma i costi sarebbero estremi, sia in termini di escalation – come risulta evidente anche dalle sue attuali perplessità – sia perché egli ha sempre ritenuto che si possa sfruttare in modo più efficace la condanna dell’aggressore a livello globale se si evita il ricorso all’atomica».
Che lezioni possiamo trarne rispetto alla guerra in Ucraina?
«In primis, quell’esercitazione ci insegna che un eventuale bombardamento atomico da parte della Russia – anche se non indirizzato contro uno Stato membro – costituisce una sfida diretta al sistema globale, a cui Washington e l’Alleanza dovrebbero in qualche modo rispondere. In secondo luogo, lo scenario prevedeva il ricorso di Putin a un’arma nucleare per ovviare al fatto che stava perdendo una guerra convenzionale, un esempio piuttosto realistico. Infine, ammette che qualsiasi conflitto con la Russia avrebbe un esito intrinsecamente insoddisfacente».
«Anche se riuscissimo a sconfiggerla in maniera convenzionale, il conflitto potrebbe intensificarsi. Non è giusto: siamo più forti, abbiamo la ragione dalla nostra, eppure Putin potrebbe usare le sue armi nucleari per minacciarci e dissuaderci dal raggiungere tutti i nostri obiettivi, a meno che non siamo disposti a rischiare un più ampio conflitto atomico. E penso che questa sia la sfida fondamentale che oggi siamo chiamati ad affrontare in Ucraina».
Insomma, dovremmo essere meno intransigenti?
«In Europa e negli Stati Uniti c’è stata una comprensibile risposta emotiva all’invasione: Putin sta violando ogni regola internazionale, è immorale e deve essere punito. Ma poi fai un passo indietro e ricordi che possiede armi nucleari. Sconfiggerlo militarmente non è possibile».
«Impedire a Putin di ottenere quello che vuole. Ma se è disposto a rischiare una guerra atomica, dobbiamo convivere con questo rischio: è la lezione di vita fondamentale dell’era nucleare. Non possiamo cambiare il fatto che viviamo in un mondo dove esistono le armi atomiche e così, ogni tanto, dobbiamo affrontare una potenziale crisi nucleare. Che sia Douglas MacArthur nella guerra di Corea, Jim Baker durante la prima guerra del Golfo, Trump con la Corea del Nord o Vladimir Putin in Ucraina, le potenze nucleari cercheranno sempre di trovare un modo per usare queste armi dal punto di vista politico, se non militare. È il mondo in cui viviamo: ogni volta che scoppia una crisi lanciamo i dadi, scommettiamo e speriamo di sopravvivere e anche stavolta è così purtroppo».
«Dobbiamo accettare che non esiste una soluzione militare a questa guerra. Se continuiamo a sostenere l’Ucraina e Kiev continua ad avanzare, a un certo punto Putin opterà per un’escalation. Se Mosca riprende l’iniziativa, aumenteremo i rifornimenti all’Ucraina per impedire l’avanzata russa e così via. Quindi o si arriva a una situazione di stallo, il che sarebbe un male per l’Europa, o dobbiamo trovare una soluzione diplomatica».
«Provo a spiegarlo con una battuta: quanti presidenti russi ci vogliono per cambiare una lampadina? Solo uno, ma deve volerla cambiare. Alcuni interlocutori e intermediari hanno cercato di convincere il leader russo a scendere a compromessi, per esempio proponendogli di ritirare le truppe (anche parzialmente) dalle province ucraine occupate. Lui invece se l’è annesse tutte e quattro e ha proclamato la legge marziale. Al di là delle parole, deve dimostrare di essere pronto a scendere a patti. Inoltre non sappiamo ancora quale sia il suo obiettivo finale: la sua politica dichiarata è che l’Ucraina non esiste, che appartiene alla Russia e che dovrebbe tornare farne parte. Tutto questo rende molto difficile trovare un compromesso, eppure bisogna provare».
A che scopo?
«Intanto perché le trattative potrebbero anche avere successo. Inoltre, offrendo un negoziato, sarebbe più facile mantenere unita la Nato, in cui vi sono Paesi più interessati di altri al dialogo e a cui dimostrare l’intenzione di trovare una soluzione pacifica, se possibile. E infine, distinguendo politicamente l’Alleanza atlantica dalla Russia, proporre una mediazione consentirebbe infatti di sfruttare il sostegno internazionale per applicare le sanzioni contro Mosca in sede Onu, così che nessuno possa dire che gli Usa e la Nato non sono disposti a trattare».
«Spesso dimentichiamo che questa non è una guerra tra gli Stati Uniti o la Nato e la Russia ma è un conflitto tra Mosca e Kiev quindi tocca a Zelensky e al suo governo decidere per la pace. Ovviamente gli Usa hanno un’influenza e possono fare leva sugli ucraini ma la vera domanda è a che punto i nostri interessi e quelli di Kiev cominceranno a divergere? È un discorso prematuro ma pensiamo al futuro della Crimea, ad esempio».
«Lo scenario è in continua evoluzione ma se, improvvisamente, dovessimo smettere di rifornire l’Ucraina allora vincerebbe Putin. Sarebbe la fine delle ostilità? Come abbiamo detto non esiste una soluzione militare alla guerra».
«Dobbiamo continuare a perseguire questo obiettivo, se volete non chiamatelo “negoziato”, chiamatelo “costruzione della fiducia”, chiamatelo “semplice comunicazione”. Ma non troveremo mai una soluzione se non ne discutiamo. Da noi si dice: “It’s better to jaw jaw than to war war”, ossia è meglio parlare a vanvera che fare la guerra. Forse in questo momento stiamo facendo entrambe le cose, ma abbiamo bisogno di più dialogo per vedere se possiamo porre fine al conflitto».
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