Maoz Inon è uno dei più prominenti attivisti per la pace israeliani. Ha perso entrambi i genitori durante gli attacchi del 7 ottobre, ma insiste: «Stop al ciclo di violenza, la guerra non fermerà il nostro sogno di pace».
La mattina del 7 ottobre Maoz Inon viene svegliato verso le 7.30 da un messaggio del padre sul gruppo whatsapp di famiglia: «Stanno suonando gli allarmi e ci sono razzi dappertutto, siamo nella stanza di sicurezza». Ma non dà particolare importanza al messaggio. Per quanto strano, pensa, è normale da quelle parti e solo dopo aver acceso il notiziario viene a sapere di un attacco in corso. «Ho richiamato i miei genitori e mi hanno detto che stavano ancora bene», ricorda a TPI, «così sono andato a preparare il caffè. Quando ho aperto Instagram ho letto sul canale “Eye on Palestine” che Hamas aveva oltrepassato le recinzioni e c’erano le loro Toyota nel centro di Sderot, allora ho richiamato mio padre – saranno passati cinque minuti dalla telefonata precedente – ma non ha più risposto».
Una vita contro la violenza
Figlio di Bilha e Yakov Inon, 76 e 78 anni, uccisi il 7 ottobre nel moshav di Netiv Hasara, a nord della Striscia di Gaza, Maoz, 48 anni, oggi vive a Binyamina, a sud di Haifa, con i propri figli e la moglie. «Sono nato nel Kibbutz di Nir Am e lì sono cresciuto fino all’età di 14 anni; poi ci siamo trasferiti a Netiv Hasara. La mia vita, la vita della mia famiglia e quella di Israele è cambiata da quel sabato nero del 7 ottobre. Un terrorista è atterrato a una decina di metri dalla casa dei miei genitori e dopo aver tentato, senza riuscirvi, di entrare nella casa dei vicini, ha notato la casa dei miei proprio lì a fianco e ha sparato un razzo. Non hanno avuto scampo». I genitori di Maoz erano nel fiore degli anni. Il padre faceva pilates tutte le mattine, camminava per cinque o dieci chilometri al giorno e lavorava a tempo pieno. La madre andava a nuoto ogni mattina, passava ore a dipingere, era insegnante e partecipava alle proteste contro il governo una volta alla settimana. «Erano una nonna e un nonno affettuosi per i loro undici nipoti e degli splendidi genitori per i loro cinque figli», racconta. Entrambi i nonni di Maoz erano pionieri sionisti immigrati in Palestina durante il Mandato britannico. Lasciarono le loro famiglie in Europa dell’Est e arrivarono nella Terra Promessa verso la metà degli anni Trenta, dove fondarono due kibbutz a Negev dando inizio al movimento dei kibbutzim. «Vengo da una famiglia ebrea», dice Maoz, «ma la mia unica religione adesso è diffondere la pace».
Negli ultimi vent’anni Maoz ha partecipato a ogni genere di iniziativa sociale per una società condivisa tra arabi, palestinesi e ebrei in Israele. Nel 2005 ha fondato la sua prima guest house nella città vecchia di Nazareth, luogo simbolo dell’identità palestinese. «Nazareth è la prima e più grande città palestinese dentro Israele, ha un centro storico stupendo con influenze ottomane e italiane, ma in quegli anni era una città morta che portava ancora i segni della seconda Intifada. La vecchia città era abbandonata a sé stessa, il crimine e lo spaccio dilagavano e nessuno desiderava passarci se non era proprio costretto. Molte delle case cadevano a pezzi e il 90 per cento dei negozi erano chiusi da anni. Dopo aver viaggiato due volte in giro per il mondo – Sud America, Nuova Zelanda, California – e conoscendo le altre culture, mi sono chiesto: “Come mai non sappiamo nulla dei palestinesi? Anche se siamo nati qui, non sappiamo nulla del luogo dov’è nato Gesù, perché siamo così ignoranti?” Decisi così di aprire il primo ostello dentro una comunità araba con l’obiettivo di restituire valore a quell’eredità culturale».
Dopo la guesthouse Maoz ha sviluppato il Jesus Trail, il primo tour escursionistico in Israele con informazioni in inglese. «Abbiamo stampato mappe, guide e creato una rete di accoglienza dentro le comunità arabe ed ebree. Anche se queste comunità si trovano a 500 metri di distanza, sono due universi a parte, vite e comunità completamente separate. Anche se gli ebrei palestinesi rappresentano il 20 per cento della popolazione, non sono cittadini alla pari, c’è una forte oppressione culturale e molto razzismo. Noi vogliamo interrompere questo ciclo, per questo ci siamo rivolti alle comunità palestinesi dentro Israele e oggi abbiamo più di 50 attività tra boutique hotel, guest house e ostelli. La vecchia città di Nazareth è rinata, molti giovani attivisti locali, tra cui molte ragazze, hanno aperto caffetterie, gallerie e organizzano numerosi eventi culturali. In seguito abbiamo aperto anche una catena di ostelli di fascia alta, gli “Abraham Hostel”, con sedi a Gerusalemme, Tel Aviv e Eilat e due società che operano insieme a soci palestinesi in Cisgiordania, soci giordani in Giordania e in Israele. Pensiamo che il turismo possa essere uno strumento per promuovere la pace e l’uguaglianza e negli ultimi anni mi sono occupato esclusivamente di accompagnare i turisti in giro seguendo il mio motto: visione, impresa, ispirazione».
L’appello al mondo
Maoz ha tre sorelle e un fratello più giovane. Nella tradizione ebraica quando si perde un familiare si pratica lo Shiva, una forma di accompagnamento al defunto a cui partecipa l’intera famiglia che si protrae per una settimana. «Credo fosse la mattina del terzo giorno quando abbiamo deciso di stabilire una nostra strategia, e che il nostro messaggio come famiglia sarebbe stato quello di non vendicarci. Nessuna vittima palestinese potrà restituirci i nostri genitori. Dopo una settimana di lutto e dopo aver pianto molto, la mia mente era lucida e da quel momento ho saputo quale sarebbe stata la mia missione e il mio messaggio al mondo: il mio primo appello è per la cessazione delle ostilità; è essenziale un cessate il fuoco immediato. In mancanza di tale intervento, le conseguenze saranno disastrose. Il secondo messaggio è la restituzione immediata degli ostaggi alle loro famiglie. Il governo che li ha abbandonati, che non è intervenuto per salvarli dalle camere di sicurezza per oltre 30 ore e ha ignorato gli avvertimenti, non importa come, ma deve riportarli a casa. Il terzo punto riguarda la necessità di rimuovere Netanyahu dall’incarico di primo ministro. In assenza delle sue dimissioni, bisogna porre fine al suo governo per preservare la nostra sicurezza. Il quarto messaggio e il più difficile, è mantenere viva la speranza. Dobbiamo coltivare la convinzione che le condizioni possano migliorare, aspirando a una coesistenza tra israeliani e palestinesi basata sui principi di pace, uguaglianza e collaborazione. Nonostante le sfide, è essenziale credere nella possibilità di questo scenario e lavorare senza sosta per raggiungerlo».
Da allora non c’è giorno in cui Maoz non parla e partecipa a incontri di ogni tipo – in pubblico, in privato, di persona e online. «In questi mesi ho visto che c’è una grande desiderio di pace da parte di palestinesi e israeliani e c’è anche una forte richiesta di intervento da parte della Comunità internazionale. L’altro giorno ho tenuto un webinar con il mio amico e attivista palestinese Hamze Awawde, e ha detto qualcosa che mi ha colpito: “Sono disposto a perdonare il passato, sono disposto a perdonare il presente, ma non perdonerò me stesso e nessun altro se non creiamo un futuro migliore”. In quel momento ho capito che Hamze stava perdonando me, la Nakba del ’48 e 57 anni di occupazione, oppressione e discriminazione; ho capito che devo accettare il suo perdono e unirmi a lui nel perdonare tutti senza chiedere vendetta. Se io e lui guardiamo al passato e al presente abbiamo due visioni completamente diverse, ma se guardiamo al futuro, vediamo la stessa cosa: pace, uguaglianza, sicurezza, giustizia e riconciliazione. Il nostro sogno per la pace è concreto e si basa su valori, partnership, piani condivisi, la loro implementazione e la ricerca costante di un significato in quello che facciamo».
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