Quando incontriamo Rachel Goldberg in un hotel di Roma, notiamo subito il numero che porta sul petto: «Sono i giorni trascorsi da mio figlio Hersh in ostaggio di Hamas». Insieme al marito Jonathan Polin e a un gruppo di undici famiglie di persone sequestrate il 7 ottobre scorso durante il brutale attentato del gruppo terroristico palestinese in Israele, è venuta nella capitale per incontrare Papa Francesco. «È una catastrofe internazionale, siamo qui perché il mondo ascolti».
Durante l’udienza generale del 22 novembre scorso, il pontefice ha ricevuto una delegazione di otto dei dodici parenti degli ostaggi arrivati a Roma e un’altra di familiari degli abitanti di Gaza. «Loro soffrono tanto, ho sentito come soffrono ambedue», ha detto Bergoglio al termine dell’udienza. Ma se le immagini della devastazione della Striscia ad opera dell’esercito israeliano, costata la vita a migliaia di civili palestinesi, hanno fatto il giro del mondo, la questione degli ostaggi è quasi passata in secondo piano. L’accordo mediato dal Qatar l’ha riportato alla ribalta, ma decine di persone aspettano ancora di riabbracciare i propri cari. Non solo in Israele.
Massacro al Nova Festival
«Molti non lo sanno», ci spiega Rachel, mostrando una foto del figlio Hersh scattata quest’estate a Milano. «Gli ostaggi provengono da quasi 30 Paesi diversi: sono cristiani, ebrei, musulmani, buddisti e indù. È una catastrofe internazionale ma temo che la gente non sappia chi siano. Se il mondo lo capisse, sarebbe più preoccupato».
Hersh Goldberg-Polin è stato sequestrato da Hamas al Nova Festival, dove il gruppo terroristico ha massacrato centinaia di giovani disarmati. «Era lì con un amico per festeggiare il suo 23esimo compleanno (Hersh è nato il 3 ottobre, ndr)», ricorda sua madre, che come il marito possiede la doppia cittadinanza statunitense e israeliana. «Poi il 7 ottobre, di prima mattina, abbiamo ricevuto due messaggi su WhatsApp, arrivati uno dopo l’altro intorno alle 8:11. Il primo diceva: “Ti voglio bene” e il successivo: “Mi dispiace”. E così ho capito che doveva essere successo qualcosa di molto brutto. Ho provato a chiamarlo e non mi ha risposto. Gli ho scritto: “Stai bene?”, poi: “Fammi sapere che stai bene” e di nuovo: “Dimmi che stai bene”. Ma quei tre messaggi non gli sono mai arrivati».
Da quanto hanno appreso in seguito, proprio in quei minuti la situazione è precipitata. «Quando hanno cominciato a sparare, insieme ad altri, è riuscito a raggiungere un rifugio: erano 29 in tutto. Ma quando i terroristi di Hamas li hanno trovati, prima hanno lanciato delle granate e poi hanno sparato contro il rifugio con un Rpg, quindi sono entrati a colpi di mitragliatrice, uccidendo la maggior parte dei ragazzi».
È stata una carneficina: «Alcuni erano gravemente feriti e in fin di vita, altri sono rimasti intrappolati sotto i corpi dei loro amici. Dai sopravvissuti abbiamo saputo che tre ragazzi, compreso Hersh, erano feriti e accasciati contro il muro. Con i mitra spianati, i terroristi hanno intimato loro di uscire, poi li hanno messi su un furgoncino e li hanno portati verso la striscia. L’ultimo segnale del cellulare di Hersh è partito alle 10:25 da Gaza».
Da allora non hanno più saputo nulla finché un giornalista della Cnn ha mostrato loro un video: «Ci aveva appena intervistati, poi ci ha richiamati e ci ha detto di avere un video in cui si vedono mio figlio e altri ragazzi mentre vengono fatti salire su un camion», ci racconta Rachel. «Hersh cammina da solo ma quando si gira per sedersi, si vede che gli manca un braccio. Si vede uscire l’osso ma il braccio non c’è più». Il giovane – che, come spiega la madre, è mancino – ha perso l’arto sinistro durante l’attacco al rifugio e mentre sale sul mezzo, cerca di arginare l’emorragia con un laccio emostatico improvvisato. L’assurdo è che, forse, il Festival non era neanche un obiettivo di Hamas, visto che non risulta sulle mappe in possesso dei terroristi e ritrovate dalle autorità israeliane dopo l’attentato. Si sono imbattuti in un bersaglio facile, attaccato vigliaccamente.
Maledette coincidenze
Quel giorno nemmeno Nik Beizer doveva trovarsi nella base vicino al valico di Erez dove poi è stato sequestrato. «Il suo servizio avrebbe dovuto concludersi il giorno prima ma un suo amico gli chiese di sostituirlo quel fine settimana per poter stare con la sua famiglia e mio fratello accettò», ci racconta la sorella 15enne Nikol Beizer, che traduce in inglese per sua madre. «È una persona molto generosa».
Sempre circondato da amici, ci spiega la famiglia, Nik è una specie di “grande fratello” per chi lo conosce. Lavora in un’associazione che aiuta i bambini disabili e poi balla, pratica tennis, taekwondo e altri sport: insomma è un ragazzo solare che lascia il segno.
Il giorno prima degli attentati, la madre Katya e suo marito Sergey, insieme a Nikol e alla fidanzata di Nik, Marta, andarono a trovarlo alla base: «Solo per stare un po’ insieme e lasciargli qualcosa di buono da mangiare. Siamo stati lì un paio d’ore, poi siamo andati a fare un giro e siamo tornati a casa», ricorda la sorella. Nessuno però avrebbe immaginato cosa sarebbe successo.
«Alle 06:00 del mattino dopo, sul telefono di mia madre abbiamo cominciato a ricevere le notifiche di un’allerta nella sua zona. Abbiamo iniziato a scrivergli, a chiamarlo, a chiedergli come stava. Sapevamo che un razzo era caduto vicino alla sua posizione. E fino alle 07:10 circa, abbiamo sempre parlato con lui», aggiunge Nikol. «Poi, nell’ultima telefonata, ha iniziato a dire: “Starò bene” e ha provato a rassicurarci. In sottofondo però sentivamo che i terroristi erano entrati nella base e la gente urlava. Un paio d’ore dopo, vediamo sui social un video pubblicato da Hamas: riconosciamo il volto di Nik con altri due soldati e li vediamo attraversare il confine con Gaza».
L’incubo continua
Da allora è iniziato un incubo che per molti continua ancora, malgrado i negoziati che hanno già portato alla liberazione di alcuni ostaggi. «Gli Stati Uniti sono stati di grande sostegno fin dall’inizio: abbiamo incontrato molte persone e credo davvero che il presidente Biden, il vicepresidente Harris e i Senatori del Congresso stiano lavorando duramente per la loro liberazione, come anche Israele», ci dice Jonathan Polin. «Ma questa non deve essere una questione politica, è una questione umana: ci sono persone innocenti, trattenute da quasi due mesi, senza cure mediche».
La reazione internazionale, evidentemente, non è sufficiente. «È un peccato che il mondo non stia protestando e insistendo di più per la liberazione di tutti gli ostaggi. Ma allo stesso tempo, credo sia importante separare i palestinesi innocenti di Gaza da Hamas. Anche loro sono in qualche modo in ostaggio», aggiunge Jon. Anche Katya ha un pensiero per i palestinesi di Gaza: «Quando sentiamo delle madri che hanno perso i figli, ci dispiace davvero», dice. «Non è colpa loro quanto è accaduto. Ma vogliamo che i nostri figli tornino a casa».
«Sento che a Gaza ci sono tante brave persone che probabilmente sanno dove si trova Hersch e magari hanno molta paura di fare qualcosa», conclude Rachel. «Spero che lo stiano aiutando e che siano in grado di farlo, perché in fin dei conti siamo tutti persone, con gli stessi desideri e lo stesso dolore, e spero che lo trattino come tratterebbero un loro figlio che è rimasto ferito».