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    Strage dei bambini sul Golan: ecco cosa può succedere ora in Libano tra Israele e Hezbollah

    Immagine di repertorio. Credit: CHINE NOUVELLE/SIPA / AGF

    Tel Aviv accusa il gruppo armato sciita di essere responsabile dell’attacco del 27 luglio contro un villaggio a maggioranza drusa, che ha provocato la morte di 12 minori. Ma il Partito di Dio nega ogni responsabilità. Il governo dello Stato ebraico però promette una risposta

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 29 Lug. 2024 alle 12:23 Aggiornato il 29 Lug. 2024 alle 12:56

    Dodici morti tra bambini e adolescenti, le accuse incrociate tra Tel Aviv e Hezbollah, la minaccia di una “guerra totale” in Libano e il rischio di un allargamento a tutto il Medio Oriente del conflitto in corso nella Striscia di Gaza dopo gli attentati di Hamas del 7 ottobre, con la minaccia di un intervento militare contro lo Stato ebraico non solo dell’Iran ma persino di un Paese Nato come la Turchia. La strage dei bambini avvenuta sabato 27 luglio nel villaggio a maggioranza drusa di Majdal Shams, sulle alture del Golan occupate da Israele, rappresenta un’altra goccia nel vaso delle conflittualità in Medio Oriente. Speriamo non sia l’ultima perché il rischio è una guerra regionale.

    La strage dei bambini
    Quando, intorno alle 18,18 ora locale (le 17,18 circa in Italia), un razzo ha colpito un campo da calcio nel villaggio di Majdal Shams, tutti in Israele hanno pensato a Hezbollah, impegnato da mesi in una campagna di attacchi contro lo Stato ebraico sin dall’inizio della guerra a Gaza. Pochi però immaginavano la portata della strage, costata la vita a 12 persone – quasi tutte di età compresa tra i 10 e i 16 anni – e il ferimento di un’altra quarantina, il raid più letale mai compiuto contro Israele dagli attentati di Hamas e della Jihad Islamica del 7 ottobre scorso.

    Le riprese dell’attacco pubblicate online mostrano il momento in cui il razzo colpisce il campo sportivo, provocando un’enorme esplosione e una colonna di fumo e detriti nella località a maggioranza drusa. Il villaggio è situato sulle alture del Golan, un territorio a nord dello Stato ebraico che Tel Aviv ha conquistato alla Siria durante la Guerra dei Sei giorni del 1967 e che ha ufficialmente annesso nel 1981 in violazione del diritto internazionale, che considera la zona occupata ai sensi di diverse risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La regione ospita circa 25mila coloni israeliani e quasi 20mila arabi di confessione drusa (un credo religioso di derivazione musulmana sciita ismailita) che per lo più si identificano come siriani e rifiutano la cittadinanza dello Stato ebraico.

    Tanto che, secondo il Consiglio locale di Majdal Shams, nessuna delle 12 vittime era cittadina israeliana, malgrado il leader dell’opposizione in Israele, Yair Lapid, abbia affermato durante i funerali che “i bambini morti su quel campo da calcio avrebbero potuto essere tutti i nostri figli”. “Pertanto”, ha aggiunto, “sono davvero figli di ognuno di noi”. Ma l’attacco e la rappresaglia che potrebbe seguire rischiano di provocare altre vittime.

    Le responsabilità dell’attacco
    Sin da subito il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, tornato dal suo tour diplomatico negli Usa, ha accusato Hezbollah, giurando che il Partito di Dio “pagherà il prezzo” di quest’attacco. A caldo, anche il segretario di Stato degli Stati Uniti Anthony Blinken aveva dichiarato che “ogni indicazione” puntava il dito contro Hezbollah. Il gruppo armato sciita libanese però, attraverso il suo portavoce Mohamad Afif, ha sin da subito negato ogni coinvolgimento, attribuendo invece la strage a un proiettile vagante del sistema di difesa missilistica Iron Dome.

    Tuttavia l’esercito israeliano ha fatto sapere di aver trovato le prove che il raid sia stato compiuto con un razzo Falaq-1 di fabbricazione iraniana e che il missile sia stato sparato da un sito di lancio nel Libano meridionale. Secondo il portavoce delle forze armate dello Stato ebraico (Idf), Daniel Hagari, il razzo di fabbricazione iraniana trasportava una testata esplosiva da 50 chilogrammi, precedentemente già utilizzata da Hezbollah, l’unico gruppo armato nella zona ad avere accesso ad armi simili.

    Poco prima dell’attacco di Majdal Shams infatti, Hezbollah aveva rivendicato la responsabilità di altri quattro raid, in risposta all’uccisione di altrettanti miliziani delle sue forze d’élite Radwan, uccisi in precedenza dallo Stato ebraico. Uno dei raid rivendicati dal gruppo armato era stato condotto proprio con un razzo modello Falaq contro il quartier generale militare della Brigata Hermon delle Idf, che si trova ad appena 3 chilometri dal campo di calcio colpito il 27 luglio. 

    Ad ogni modo, in un’intervista a Sky News, il ministro degli Esteri libanese Abdallah Bou Habib ha dichiarato che non c’è “alcuna logica” nel ritenere che l’attacco sia stato compiuto da Hezbollah. “Qualunque cosa sia accaduta, noi come governo condanniamo l’uccisione di civili, chiunque essi siano, ovunque si trovino, in Medio Oriente o in tutto il mondo”, ha detto Bou Habib. “Quindi condanniamo l’accaduto, perché ha colpito dei civili, dei giovani che giocavano a calcio”. Ma, ha aggiunto il ministro degli Esteri libanese, il fatto che sia avvenuto in un’area occupata da Israele, non concede a Tel Aviv la “licenza di uccidere e distruggere” in Libano. Dallo Stato ebraico infatti è arrivata subito la promessa di una risposta contro gli autori dell’attacco.

    La rappresaglia di Israele
    Ieri sera, il gabinetto di sicurezza del governo israeliano ha infatti autorizzato il premier Benjamin Netanyahu a decidere come rispondere alla strage di Majdal Shams. Poche ore prima, durante i funerali delle prime dieci vittime in cui è stato contestato dai residenti locali che gli hanno chiesto di andarsene, il ministro delle Finanze e leader del partito di estrema destra Mafdal–Religious Zionism, Bezalel Smotrich, aveva dichiarato che “il Libano nel suo insieme deve pagare il prezzo” dell’attacco del 27 luglio, mentre il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah dovrebbe “pagare con la testa”.

    Intanto, mentre Usa e Francia erano impegnate a fare pressioni su Tel Aviv affinché limitasse la propria risposta e non colpisse la capitale Beirut, nella notte l’esercito israeliano bombardava diversi obiettivi all’interno del Libano in una serie di raid molto simili a quelli condotti quasi quotidianamente negli ultimi 10 mesi lungo il confine tra i due Paesi e probabilmente non correlati all’attesa rappresaglia per la strage di Majdal Shams.

    In mattinata un altro raid attribuito a Israele ha ucciso due persone e ne ha ferite altre tre quando un drone armato ha colpito un’auto e una moto sulla strada Qalaa tra le città di Mays al-Jabal e Shaqra, nel sud del Paese arabo. Tra le vittime, secondo una nota diramata da Hezbollah, figura un miliziano del gruppo armato. Un altro attacco, non confermato dalle Idf, che potrebbe però non essere direttamente collegato a quanto successo sabato 27 luglio ma che rappresenta comunque il primo raid letale in Libano dalla strage avvenuta nel fine settimana, a cui il Partito di Dio ha risposto poco dopo con una raffica di razzi in direzione di Kiryat Shmona, nel nord di Israele, che non hanno provocato feriti.

    Un’escalation che mette a rischio anche i nostri militari schierati in Libano. “Il Governo italiano ha rinnovato ai governi israeliano e libanese la richiesta pressante di fare tutto quanto in loro potere per evitare un’ulteriore escalation negli scontri militari nella regione, una fase che potrebbe finire fuori controllo e provocare altri danni e lutti dolorosi in un’area colpita da un conflitto che andrebbe al contrario totalmente disinnescato”, si legge in una nota della Farnesina, secondo cui il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani sta seguendo l’evolversi della crisi insieme al collega della Difesa Guido Crosetto, tenendosi in contatto con i i ministri degli Esteri di Israele, Israel Katz, e del Libano, Abdullah Bou Habib. “Tajani e Crosetto, con i vertici dei loro ministeri, hanno valutato le opzioni a disposizione per la protezione dei cittadini italiani presenti nella regione. La Farnesina rafforza il monitoraggio operativo sugli italiani in Libano e Israele e continua a suggerire a tutti i cittadini italiani in grado di farlo di lasciare la regione”.

    Intanto la Farnesina ha chiesto ai nostri connazionali di lasciare la regione ma il nostro Paese schiera anche un contingente di circa 1.200 militari lungo la cosiddetta “Linea blu”, la fascia-cuscinetto tra Libano e Israele istituita dall’Onu per promuovere una de-escalation nell’area, che evidentemente non è riuscita, almeno per ora. Il rischio maggiore è che Tel Aviv pianifichi un attacco su vasta scala contro gli obiettivi di Hezbollah in Libano o contro i suoi leader, che potrebbe far precipitare il Medio Oriente in un conflitto allargato con la partecipazione dell’Iran, il principale finanziatore del gruppo armato sciita.

    La reazione dell’Iran
    Teheran, non è un segreto, parteggia per Hezbollah, al punto da difenderne e sostenerne la smentita di ogni coinvolgimento nell’attacco sulle alture del Golan. Ieri, in una nota, il governo iraniano ha definito uno “scenario inventato” la ricostruzione israeliana della strage e le accuse contro il gruppo armato libanese, avvisando anche Tel Aviv che un’eventuale rappresaglia potrebbe ulteriormente destabilizzare la regione. 

    “Israele non ha la minima autorità morale per commentare e giudicare l’incidente accaduto nell’area di Majdal Shams, e le rivendicazioni di questo regime contro altri non saranno ascoltate”, si legge nel comunicato pubblicato ieri dal ministero degli Esteri di Teheran. 

    Un’escalation inoltre potrebbe coinvolgere anche altre milizie filo-iraniane della regione, come gli Houthi in Yemen e la Resistenza Islamica in Iraq, impegnate da mesi in una serie di attacchi contro Israele e non solo per fare pressione su Tel Aviv e la comunità internazionale affinché pongano termine alla guerra a Gaza. Tuttavia, la minaccia peggiore arriva addirittura da un membro della Nato.

    Le minacce della Turchia
    Ieri sera il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha infatti paventato un intervento militare contro Tel Aviv, come già fatto da Ankara in Libia e in Nagorno Karabakh, infiammando ancor di più il clima. La Turchia deve essere “molto forte in modo che Israele non possa fare queste cose ai palestinesi”, ha detto Erdogan durante una riunione del suo partito Akp a Rize, richiamando quanto accaduto a Gaza e ricordando gli interventi e gli aiuti militari turchi in altre crisi regionali. “Così come siamo entrati in (Nagorno-)Karabakh, così come siamo entrati in Libia, potremmo fare lo stesso con loro. Non c’è niente che non possiamo fare. Dobbiamo solo essere forti”.

    Nel 2020, Ankara appoggiò militarmente l’Azerbaigian (a cui anche Israele ha venduto armi e tecnologie) durante i 44 giorni di guerra con l’Armenia e l’ormai scomparsa Repubblica separatista dell’Artsakh, che controllava il Nagorno-Karabakh, un territorio a maggioranza armena ma de iure appartenente a Baku. Nello stesso anno, la Turchia approvò ufficialmente l’invio di truppe in Libia a sostegno del governo riconosciuto dalle Nazioni Unite.

    In quanto membro della Nato, che comprende molti dei più importanti alleati di Israele come gli Stati Uniti, difficilmente Erdogan potrebbe davvero intraprendere un’azione militare diretta contro Israele, tuttavia le sue dichiarazioni hanno contribuito ad alzare i toni in tutta la regione in un momento di massima delicatezza.

    In risposta alle sue parole infatti, il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha paragonato il presidente turco al defunto dittatore iracheno Saddam Hussein, il cui regime fu rovesciato nel 2003 da un’invasione militare a guida statunitense e che fu in seguito giustiziato, dopo essere stato catturato e processato. “Erdogan sta seguendo la strada di Saddam Hussein e minaccia di attaccare Israele”, ha scritto Katz sulla piattaforma X (ex Twitter). “Dovrebbe solo ricordare cosa successe e come andò a finire”.

    Per tutta risposta, sempre su X, il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha difeso Erdogan: “Il nostro Presidente è diventato la voce della coscienza dell’umanità”. “Coloro che cercano di mettere a tacere questa voce giusta, in particolare i circoli sionisti internazionali, tra cui Israele, sono in uno stato di grande panico”, ha scritto Fidan. “La storia è finita allo stesso modo per tutti i responsabili del genocidio e i loro sostenitori”.

    Ancora sui social poi, il ministero degli Esteri turco ha pubblicato un post in cui il premier israliano viene paragonato addirittura ad Adolf Hitler. “Proprio come finì il genocidio di Hitler, così finirà il genocidio di Netanyahu. Proprio come i nazisti genocidi sono stati perseguitati, così saranno coloro che cercano di distruggere i palestinesi”, si legge su X. “L’umanità starà al fianco dei palestinesi. Non distruggerete i palestinesi”.

    Negli ultimi nove mesi di conflitto a Gaza, Ankara e Tel Aviv si sono scontrate spesso e non solo a livello verbale. A maggio, Erdogan ha annunciato che la Turchia avrebbe sospeso tutti gli scambi commerciali con Israele, che ha minacciato ritorsioni economiche. Non solo: negli ultimi tempi il presidente turco ha più volte suggerito che Tel Aviv avrebbe “messo gli occhi su” Ankara una volta conclusa la guerra nella Striscia.

    In un discorso pronunciato sempre a maggio davanti ai deputati del suo partito Akp, Erdogan ha infatti dichiarato “che Israele non si fermerà a Gaza”. “Se non verrà fermato, (…) questo Stato canaglia e terrorista prima o poi punterà all’Anatolia”, disse Erdogan, secondo cui la Turchia avrebbe “continuato a sostenere Hamas, che combatte per l’indipendenza della propria terra”.

    Da quando è scoppiata la guerra a Gaza dopo i brutali attentati del 7 ottobre scorso in Israele, costati la vita a 1.139 persone e la libertà a 251 ostaggi, di cui 111 ancora trattenuti da Hamas nella Striscia, compresi 39 già dichiarati morti, il presidente turco ha ricevuto almeno una volta il capo politico del gruppo terroristico palestinese Ismail Haniyeh, incoraggiando tutti i palestinesi a unirsi contro Tel Aviv e paragonando lo Stato ebraico alla Germania nazista. Altro che de-escalation.

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