Fatima ha sette figli e prima della guerra viveva a Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza. Quando le forze armate di Israele hanno iniziato a bombardare il suo quartiere, ha fatto appena in tempo a uscire di casa con i bambini, prima che l’intero edificio crollasse. Oggi abita con tutta la sua famiglia in una scuola trasformata in rifugio per chi ha perso tutto: durante la fuga infatti ha pensato solo ai suoi figli e non ha avuto il tempo di prendere vestiti, cibo o altro.
Anche Nur è stata costretta ad abbandonare la propria casa con i suoi tre bambini. Fino al 7 ottobre viveva a Jabalia, nel nord della Striscia, da dove però è dovuta fuggire nelle prime settimane di guerra. All’inizio, la famiglia si è rifugiata a Gaza City da alcuni parenti finché non è arrivato l’ordine di evacuazione delle forze armate israeliane. Quindi Nur ha trovato rifugio dal fratello Nasser a Khan Yunis, nel sud del territorio palestinese, ma poi anche lì sono cominciati i bombardamenti. Oggi la 44enne vive in un campo per sfollati a Rafah, vicino a una scuola, in una tenda improvvisata di 20 metri quadrati, realizzata con coperte e altri pezzi di stoffa, insieme ad altre 32 persone, compresi 14 bambini, tra cui i suoi tre figli.
Quasi 1,7 milioni di persone, oltre il 75 per cento della popolazione, risultano sfollate nella Striscia di Gaza. Almeno un milione, secondo l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), risiede in rifugi di fortuna in condizioni igienico-sanitarie disastrose. Soltanto l’Unrwa ospita attualmente oltre 1,4 milioni di palestinesi in 155 strutture di vario tipo dove, in media, 394 rifugiati condividono un unico bagno e c’è una doccia ogni 2.900 persone. La popolazione però non ha alternative: secondo le stime elaborate dal Centro satellitare delle Nazioni Unite (Unosat) sulla base delle rilevazioni pre e post 7 ottobre, almeno la metà degli edifici della Striscia sono stati danneggiati o distrutti.
Solo macerie
James Elder è il portavoce dell’Unicef e a dicembre ha accompagnato un convoglio di aiuti umanitari a Gaza. «Ho attraversato le rovine di quella che, mi è stato detto, una volta era una comunità molto unita, ma che ora non è altro che un cumulo di vetri rotti, macerie e acciaio che scricchiolano sotto i miei piedi. Case squarciate e il loro contenuto esposto come case di bambole, all’interno le vite degli abitanti messo a nudo. Contro le macerie grigie, emergevano inquietanti resti di normalità, come un divano in un appartamento senza pareti al terzo piano di un palazzo, o un dipinto sull’unico muro rimasto in piedi dopo un’esplosione», ha ricordato in un podcast pubblicato su YouTube dall’Agenzia Onu. «Ho guardato quella che una volta era la cameretta di una bambina, con le coperte rosa, un armadio, scaffali pieni di libri, soffici peluche. Sembrava la stanza di una qualsiasi ragazzina di 12 anni, di qualsiasi famiglia della classe media, in qualsiasi parte del mondo. Era in gran parte intatta. La bambina sarebbe stata al sicuro se non si fosse trovata in un’altra stanza quando l’abitazione è stata colpita».
Dopo quattro mesi di guerra, la Striscia di Gaza è ormai inabitabile ma, secondo un rapporto presentato di recente dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad), anche se la guerra finisse domani, ci vorrebbero decine di miliardi di dollari per rendere nuovamente vivibile il territorio costiero palestinese mentre tutt’oggi si fa fatica a raccogliere contributi per alleviare le sofferenze degli sfollati.
Alla fine di novembre, a poco meno di due mesi dall’inizio del conflitto, almeno 37.379 edifici – pari al 18 per cento del totale delle strutture della Striscia di Gaza – erano stati danneggiati o distrutti nel corso dell’operazione militare israeliana. Da allora, secondo l’economista dell’Unctad Rami Al Azzeh, le immagini satellitari indicano che la distruzione è più che raddoppiata. «Nuovi dati indicano che il 50 per cento delle strutture a Gaza sono state danneggiate o distrutte», ha rivelato l’esperto, secondo cui «Gaza è attualmente inabitabile».
Senza speranza di ripresa
La situazione nel territorio costiero palestinese, ha ricordato l’Unctad, era già disastrosa prima dell’inizio della guerra. La Striscia infatti era sottoposta a un embargo da parte di Israele da 17 anni, mentre le ripetute operazioni militari condotte dallo Stato ebraico nel 2008, 2012, 2014, 2021, 2022 e nel maggio 2023 hanno reso l’80 per cento della popolazione locale dipendente dagli aiuti internazionali.
Secondo le Nazioni Unite, nei primi tre trimestri del 2023, l’economia di Gaza si era già contratta del 4,5 per cento. «L’operazione militare ha accelerato significativamente il declino economico e ha provocato una contrazione del Pil del 24 per cento e un calo del 26,1 per cento del Pil pro capite nel 2023», si legge in una nota dell’Unctad.
Se prima del 7 ottobre, ha ribadito Al Azzeh, il 45 per cento della popolazione attiva di Gaza risultava non occupata, a dicembre il tasso di disoccupazione è salito quasi all’80 per cento. «L’intera economia a Gaza è paralizzata», ha sottolineato l’esperto, secondo cui le uniche persone che attualmente lavorano nella Striscia sono impiegate in attività umanitarie.
La ricostruzione poi richiederà decine di miliardi di dollari. Anche se i lavori iniziassero immediatamente e il Pil di Gaza tornasse a crescere a un ritmo medio dello 0,4 per cento annuo osservato nell’ultimo quindicennio, secondo l’Unctad, l’economia del territorio costiero palestinese avrebbe bisogno di settant’anni per tornare ai livelli del 2022.
Per l’economista Al Azzeh, sarebbero necessari massicci aiuti internazionali. «Non c’è dubbio che, secondo una stima prudente, ciò ammonterà a diverse decine di miliardi di dollari», si legge nel rapporto della Conferenza Onu. Ovviamente, sottolineano le Nazioni Unite, qualsiasi soluzione alla crisi richiederebbe la fine dell’operazione militare e la revoca dell’embargo. L’obiettivo, spiega l’Agenzia, non può essere semplicemente «il ritorno allo status quo prima del 7 ottobre 2023».
Intanto, la guerra scatenata da Israele nella Striscia di Gaza dopo i brutali attentati di Hamas e della Jihad Islamica del 7 ottobre scorso, costati la vita a quasi 1.200 persone, per lo più civili, ha provocato oltre 27mila morti e 65mila feriti palestinesi, in stragrande maggioranza donne e bambini.
In attesa di contributi
In primis, come stabilito dalla Corte di Giustizia Internazionale de L’Aja, bisognerebbe aumentare gli aiuti umanitari alla Striscia di Gaza, troppo spesso bloccati ai valichi con Israele. Poi però, come ribadito a più riprese dal segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres è necessario assicurare la continuità delle attività dell’Unrwa, da cui dipendono quasi 2 milioni di abitanti del territorio costiero palestinese.
Tuttavia, la sospensione delle donazioni a quest’Agenzia Onu rischia di aggravare la situazione della popolazione. Israele ha infatti accusato 12 dipendenti (su 13mila) dell’Unrwa di essere coinvolti negli attentati del 7 ottobre: le Nazioni Unite hanno già licenziato queste persone e avviato un’indagine interna. Nel frattempo però, 16 Paesi del mondo, tra cui Stati Uniti, Germania, Giappone, Francia, Svizzera, Canada, Paesi Bassi, Regno Unito, Australia, Finlandia, Islanda, Estonia, Austria, Romania, Nuova Zelanda e anche l’Italia, hanno congelato i versamenti all’Agenzia in attesa dell’esito dell’inchiesta.
Una decisione che potrebbe creare una voragine nel bilancio dell’Unrwa visto che, secondo i dati dell’ong UN Watch, solo nel 2022 questi Paesi si erano fatti carico di oltre il 73 per cento degli aiuti (pari a circa 700 milioni di dollari) all’ente, che conta tra i suoi operatori oltre 150 vittime in questa guerra mentre altri tremila continuano ad assistere persone come Fatima e Nur, che altrimenti non avrebbero a chi altro rivolgersi.
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