L’equivalente di tre bombe nucleari, sganciate su un territorio grande un decimo della città metropolitana di Bologna. Sono circa 45mila le bombe che le forze israeliane hanno lanciato nei primi mesi della campagna su Gaza, dal peso complessivo di 65 mila tonnellate. Una risposta devastante agli attacchi del 7 ottobre, in cui 1.200 israeliani hanno perso la vita e più di 200 sono stati presi in ostaggio da Hamas. Da allora l’80 per cento dei 2,3 milioni di abitanti della Striscia è stato ucciso, ferito o costretto a lasciare la propria abitazione.
Le bombe israeliane non hanno risparmiato case, uffici, tribunali, università, scuole, luoghi di culto e strutture essenziali, come l’unico mulino rimasto in funzione. Più del 70 per cento delle abitazioni (l’80 per cento nel nord, dove si trova la città di Gaza) e circa la metà degli edifici della Striscia è stato danneggiato o distrutto, mentre il 75 per cento della popolazione (1,7 milioni di persone, la metà dei quali bambini) è sfollata. La situazione umanitaria, già grave in un territorio considerato da almeno 17 anni una “prigione a cielo aperto”, è diventata catastrofica. Oltre alle vittime per le bombe e i proiettili iniziano a registrarsi i primi morti per fame. Negli ospedali Kamal Adwan e al-Shifa, come riportato da Associated Press, si contano almeno 20 morti per malnutrizione e disidratazione, la maggior parte dei quali bambini.
Un massacro documentato, oltre che dai numeri, dal flusso costante di foto e video sui social media, con immagini di esecuzioni, corpi dilaniati e razzie. Contenuti a volte condivisi dagli stessi soldati israeliani e finiti tra le prove presentate a L’Aja nel processo per genocidio contro Israele.
Immagini tragiche di cui si fatica a scrivere, come l’uccisione di un ostaggio che sventola un panno bianco e i corpi di neonati abbandonati negli incubatori, vengono rilanciate sugli smartphone in tutto il mondo, alimentando l’indignazione contro una delle più distruttive campagne di bombardamenti della storia recente e chi la sostiene.
L’incubo di Joe
È quanto avviene anche negli Stati Uniti, dove la guerra sta erodendo i consensi per Joe Biden a otto mesi dalle presidenziali. La posizione dell’amministrazione Biden, critica con il governo israeliano ma allo stesso tempo disposta a sostenere lo sforzo bellico senza condizioni, rischia di pesare sulle chance di rielezione del leader democratico, che a novembre dovrà affrontare Donald Trump. Un recente sondaggio indica che il 52 per cento degli americani, e il 62 per cento di chi lo ha sostenuto nel 2020, chiede la sospensione delle forniture militari a Israele fino a quando non sarà raggiunto un accordo per il cessate il fuoco.
In risposta ai malumori della base e alle critiche a livello internazionale, Biden e la sua amministrazione hanno cercato sempre più di distanziarsi dal governo Netanyahu, senza però mettere in discussione le forniture militari a Tel Aviv, con più di 100 vendite di armi dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Piuttosto, gli sforzi dell’amministrazione democratica sono stati rivolti alla riesumazione di uno dei capisaldi dei piani statunitensi per la regione, la soluzione dei due Stati.
«Questa guerra ha avuto un impatto maggiore sui civili innocenti rispetto a tutte le precedenti guerre a Gaza messe insieme. Più di 30 mila palestinesi sono stati uccisi. La maggior parte dei quali non sono Hamas. Migliaia e migliaia sono donne e bambini innocenti. Anche ragazze e ragazzi sono rimasti orfani», ha ricordato il presidente statunitense durante il discorso sullo stato dell’Unione, citando i numeri delle autorità di Gaza, in cui fino allo scorso novembre diceva di non avere «fiducia». «Quasi 2 milioni di palestinesi vivono in più sotto i bombardamenti o sono sfollati», ha proseguito. «Case distrutte, quartieri in macerie, città in rovina. Famiglie senza cibo, acqua, medicine. È straziante».
Per questo, il leader democratico ha annunciato di aver ordinato all’esercito la costruzione di un molo temporaneo nella Striscia di Gaza per far arrivare gli aiuti all’exclave palestinese. Una risposta ai continui ostacoli all’arrivo di aiuti nella Striscia e alle notizie di sparatorie da parte delle forze israeliane contro i palestinesi in fila per prendere i pochi pacchi che riescono ad arrivare nel territorio. In particolare la tragedia avvenuta giovedì 29 febbraio, in cui più di 100 palestinesi sono stati uccisi dopo che l’esercito israeliano ha aperto il fuoco mentre venivano distribuiti gli aiuti, era già stata citata da Biden come un fattore che avrebbe «complicato» le trattative tra Israele e Hamas, che la Casa bianca sperava di accelerare.
«Questo molo temporaneo consentirebbe un massiccio aumento della quantità di aiuti umanitari che arrivano ogni giorno a Gaza», ha affermato Biden nel suo discorso di fronte al Congresso. «Ma anche Israele deve fare la sua parte. Israele deve consentire l’arrivo di più aiuti a Gaza e garantire che gli operatori umanitari non finiscano sotto il fuoco incrociato». Una proposta che ricorda quella del ministro israeliano degli Esteri Israel Katz, che a gennaio ha presentato ai suoi omologhi europei un progetto per la costruzione di un porto su un’isola artificiale al largo di Gaza per controllare i beni in ingresso. Secondo il Pentagono, i lavori potrebbero richiedere fino a due mesi.
Nel frattempo l’obiettivo, come riaffermato da Biden, è arrivare a un cessate il fuoco immediato che duri almeno sei settimane. Questa intesa «riporterebbe gli ostaggi a casa, allevierebbe l’intollerabile crisi umanitaria e sarebbe la base per qualcosa di più duraturo». La prospettiva, per l’amministrazione Usa, è quella della creazione di uno Stato palestinese accanto a quello ebraico.
L’ostacolo alla pace
«Lo dico come sostenitore di lunga data di Israele e come unico presidente americano a visitare Israele in tempo di guerra», ha spiegato Biden. «Non esiste altra strada che garantisca la sicurezza e la democrazia di Israele. Non esiste altra strada che garantisca ai palestinesi di vivere in pace e dignità. Non esiste altra strada che garantisca la pace tra Israele e tutti i suoi vicini arabi, compresa l’Arabia Saudita», ha aggiunto, facendo riferimento ai negoziati per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Riad, bloccati dagli attacchi lanciati da Hamas il 7 ottobre scorso e dalla risposta senza precedenti delle forze israeliane. La richiesta del Paese che ospita alcuni tra i principali luoghi sacri dell’Islam è di consentire il ritorno dell’Autorità nazionale palestinese a Gaza e dare il via a un percorso che possa portare alla creazione di uno Stato di Palestina. Fumo negli occhi per Benjamin Netanayahu, che ha dedicato la sua carriera politica a contrastare la soluzione dei due Stati, fino a difendere gli aiuti a Hamas come baluardo contro la creazione di uno Stato palestinese.
«Chiunque voglia contrastare la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas e il trasferimento di denaro a Hamas. Questo fa parte della nostra strategia: isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi della Cisgiordania», le parole che Netanyahu pronunciava nel 2019 durante una riunione con i suoi colleghi del partito conservatore Likud. Anche negli ultimi mesi, il premier israeliano ha smentito seccamente qualsiasi ipotesi di apertura alla creazione di uno Stato palestinese. Il leader del Likud ha dichiarato che non consentirà a Gaza di diventare “Fatahstan”, un riferimento al partito del presidente palestinese Mahmud Abbas. Piuttosto, il governo israeliano punta a lasciare l’amministrazione della Striscia a leader locali non legati a Hamas o Fatah, mantenendo la separazione tra Cisgiordania e Gaza. Secondo l’amministrazione statunitense, il piano non è sostenibile e porterebbe a un’occupazione indefinita della Striscia di Gaza. Ma l’ostilità del governo israeliano non ha scoraggiato la Casa bianca, che ha continuato a sostenere la soluzione dei due Stati e ha rispolverato una soluzione considerata per anni l’obiettivo principale degli sforzi diplomatici nella regione, nonostante sia sempre rimasta lettera morta.
A fine ottobre, poco dopo l’inizio dell’offensiva di terra sulla Striscia, Biden ha evidenziato la necessità di una «visione per quello che seguirà» che, a parere dell’amministrazione statunitense «deve essere una soluzione dei due Stati». Ancora a metà novembre: «Non so quanto durerà la guerra, ma non credo che finirà senza una soluzione a due Stati». Di nuovo durante il discorso sullo stato dell’Unione di giovedì 7 marzo. «L’unica vera soluzione è una soluzione a due stati».
Un piano mai applicato
Per anni è stato l’obiettivo della diplomazia statunitense, degli alleati occidentali e dei Paesi arabi nella regione, invocato anche dalle Nazioni Unite e da vari organismi internazionali. Uno dei cardini dei piani statunitensi per la regione al termine della Guerra fredda e della Guerra del Golfo, ha trainato il percorso sfociato negli accordi di Oslo del 1993. Il fallimento del processo di pace non ha impedito a molti di continuare a considerare la soluzione dei due Stati l’unico compromesso che possa soddisfare le aspirazioni di israeliani e palestinesi.
La soluzione risale agli anni del mandato britannico, quando la commissione Peel raccomandò la ripartizione della Palestina in due Stati. Dieci anni dopo, nel 1947, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò la risoluzione n. 181 in cui si prevedeva la creazione di uno Stato ebraico e di uno arabo, a cui spettava il 42 per cento del territorio, con Gerusalemme sotto controllo internazionale. Il piano non è mai stato applicato: a seguito dell’approvazione scoppiò il conflitto che nel 1948, dopo il ritiro del Regno Unito e la contestuale proclamazione dello Stato di Israele, sfociò poi nella prima guerra arabo-israeliana. In quei mesi più di 750 mila palestinesi furono costretti a lasciare le proprie case nell’evento noto come “Nakba” o “disastro”, che portò alla distruzione o allo spopolamento di oltre 500 centri abitati a maggioranza araba e alla morte di migliaia di palestinesi.
La Cisgiordania e la Striscia di Gaza, che si estendono sul 22 per cento del territorio della Palestina mandataria, finirono sotto il controllo di Israele nel 1967, a seguito della Guerra dei Sei giorni. I palestinesi dei territori occupati si ritrovarono così sotto il diretto controllo dello Stato ebraico ma senza godere dei diritti riconosciuti ai cittadini israeliani.
Il processo di pace riprese il via agli inizi degli anni ’90, con la fine della Guerra fredda e della Guerra del Golfo, e a seguito della prima Intifada (“sollevazione”). L’Organizzazione per la liberazione della palestina (Olp) si impegnò a rinunciare al terrorismo e riconobbe il diritto di Israele a esistere «in pace e sicurezza», avviando un processo che avrebbe dovuto portare alla creazione di uno Stato palestinese indipendente. Con l’intesa siglata nel 1995 la Cisgiordania fu divisa in tre aree: sotto il controllo diretto della neonata Autorità nazionale palestinese (Anp) finì il 18 per cento della Cisgiordania collocato nella zona A. Il 22 per cento del territorio (zona B) fu invece sottoposto al controllo congiunto israelo-palestinese mentre il 60 per cento della Cisgiordania (zona C) restò sotto il controllo israeliano. Lo Stato palestinese sarebbe sorto sull’intera Striscia di Gaza e sul 97 per cento della Cisgiordania, con compensazioni per la parte di territorio che Israele avrebbe assorbito e Gerusalemme Est come capitale. L’accordo finale però non fu mai raggiunto, anche per il costante allargamento degli insediamenti israeliani, illegali secondo il diritto internazionale ma tollerati dalle autorità di Tel Aviv. Dai circa 250mila presenti nel 1993, attualmente i coloni in Cisgiordania e Gerusalemme Est sono 700 mila.
Dopo lo scoppio della seconda Intifada nel settembre del 2000, le trattative per la creazione di uno Stato palestinese si arenarono, anche se la soluzione dei due Stati resta un punto fermo per i Paesi arabi e Washington, che ha tentato a più riprese di rilanciare il processo di pace, senza alcun successo.
Ascesa di un estremista
Su questo fallimento Netanyahu ha costruito la sua carriera politica. Critico con gli accordi di Oslo, è arrivato per la prima volta alla guida del governo nel 1996, dopo l’assassinio del premier Yitzakh Rabin per mano di un estremista di destra. Nettamente sfavorito contro Shimon Peres, Netanyahu risalì nei sondaggi a seguito di una campagna di attentati da parte di Hamas e poi superò di misura l’erede politico del premier che aveva firmato gli accordi. Costretto alle elezioni anticipate, nel 1999 perse contro il laburista Ehud Barak, che aveva promesso di rilanciare il processo di pace.
Dieci anni dopo Bibi tornò al potere, in uno scenario totalmente cambiato. Lo scoppio della seconda Intifada e la reazione alla vittoria di Hamas alle seconde (e finora ultime) elezioni per il parlamento palestinese nel 2006 avevano posto fine al processo di pace. Dal 2007, quando Hamas prese il controllo della Striscia di Gaza, si consolidò inoltre il blocco sul territorio palestinese, tuttora in corso. Questa volta Netanyahu restò in carica 12 anni, più di qualsiasi suo predecessore, promettendo alla popolazione stabilità, senza concessioni ai palestinesi. Costretto a cedere il passo all’opposizione per un anno e mezzo, a dicembre 2022 è tornato a occupare la poltrona di premier alla guida di una maggioranza di destra per molti versi inedita, considerata la più estrema nella storia israeliana.
Mentre i manifestanti scendevano in strada contro le riforme giudiziarie, la questione palestinese finiva sempre più in secondo piano. L’attenzione del governo israeliano era presa invece da un altro processo, quello di normalizzazione con i Paesi arabi. Primo fra tutti l’Arabia Saudita, rimasta fuori dagli Accordi di Abramo promossi da Donald Trump, a cui finora hanno aderito Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco. La priorità alla vigilia del 7 ottobre era di raggiungere un accordo accantonando di fatto la questione palestinese. Gli attacchi di Hamas hanno invece ridato centralità a quanto accade nei territori occupati, riportando sul tavolo proposte rimaste per anni a languire nei cassetti.
La leva di Washington
È il caso della soluzione dei due Stati, che rimane il principale riferimento delle Nazioni Unite e della comunità internazionale. Uno dei sostenitori è Martin Indyk, ex ambasciatore statunitense in Israele, secondo cui gli ultimi mesi hanno dimostrato che «le notizie sulla morte della soluzione dei due stati erano molto esagerate».
In un articolo pubblicato su Foreign Policy, rivista del Council on Foreign Relations, Indyk ha spiegato che i costi legati alla decisione di non negoziare sono diventati evidenti negli ultimi mesi e lo diventeranno ancora di più in futuro. Nonostante l’ipotesi di un accordo sembri attualmente lontana, è il suo ragionamento, in futuro palestinesi e israeliani potrebbero convincersi a sostenere un processo di pace. Un percorso che secondo l’ex diplomatico, potrà essere avviato grazie all’impegno degli Stati Uniti e della comunità internazionale a favore di uno Stato palestinese.
Un aspetto cruciale, secondo l’ex inviato speciale per i negoziati israelo-palestinesi, è che Israele dipende dal punto di vista tattico e strategico dagli Stati Uniti. Uno «sviluppo nuovo» lo ha definito l’ex ambasciatore, che ha ricordato il dispiegamento nella regione di due portaerei e di un sottomarino nucleare per dissuadere Iran e Hezbollah. Un fatto che avrebbe messo in evidenza come gli Stati Uniti siano diventati la prima, e non più la seconda, «linea di difesa di Israele», dimostrando che lo Stato ebraico non è più in grado di «difendere se stesso da solo», come rivendicava Netanyahu prima del 7 ottobre. A dimostrazione della sua tesi, Indyk ha citato la richiesta dell’esercito israeliano a Washington, riportata lo scorso gennaio dall’emittente israeliana Channel 12, di lasciare nel Mediterraneo un gruppo da battaglia di una portaerei che gli Stati Uniti intendevano ritirare.
Indyk ritiene che l’amministrazione possa fare leva su questa dipendenza, sull’isolamento internazionale di Israele e su altri fattori per spingere Tel Aviv ad accettare uno Stato palestinese. «Se il conflitto deve essere risolto pacificamente, la soluzione dei due Stati è l’unica idea rimasta», ha scritto.
Dalle macerie non nasce niente
Di parere diametralmente opposto altri due studiosi, che in un articolo sullo stesso numero di Foreign Affairs, dedicato a “Israele, Gaza e la lotta per un nuovo Medio Oriente”, hanno invece definito la soluzione dei due Stati un «miraggio».
L’unico motivo per parlare della soluzione dei due Stati, hanno scritto i professori Marc Lynch (George Washington University) e Shibley Telhami (University of Maryland), è quello di «mascherare una realtà ‘mono.statale’ che diventerà ancora più radicata dopo la guerra».
Da tempo, secondo i due accademici, i presupposti per una soluzione dei due Stati non esistono più. Da un lato l’insediamento dell’ultimo governo Netanyahu, il più a destra della storia israeliana, ha certificato il superamento di qualsiasi ipotesi di compromesso con i palestinesi, vista la presenza nell’esecutivo di ministri apertamente favorevoli all’allontanamento dei palestinesi dai Territori.
È il caso ad esempio del ministro dell’Agricoltura Avi Dichter, che lo scorso novembre ha annunciato la «Nakba di Gaza» ai giornalisti che gli avevano chiesto se le immagini degli sfollati nella Striscia erano paragonabili a quelle della Nakba del 1948. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha invece detto che la soluzione giusta per i problemi della Striscia è la «migrazione volontaria» dei residenti, una formula che, secondo i critici, rappresenta un eufemismo per la «pulizia etnica» dell’exclave.
Dall’altra la paralisi delle istituzioni palestinesi, ininfluenti a livello internazionale e screditate tra la stessa popolazione, il continuo ampliamento degli insediamenti e la devastazione inflitta alla Striscia di Gaza, sottoposta a embargo da più di 17 anni, rendono irrealistica qualsiasi eventualità di preparare il terreno a uno Stato palestinese.
Non bastassero questi elementi, le dichiarazioni di Benjamin Netanyahu lasciano poco spazio a fraintendimenti. Il premier israeliano si è più volte scagliato contro l’ipotesi, rivendicando di recente di aver «bloccato per decenni la creazione di uno Stato palestinese che avrebbe messo a repentaglio la nostra esistenza».
Secondo il parere di Lynch e Telhami, l’idea che uno Stato palestinese possa emergere dalle macerie di Gaza «non ha alcun fondamento nella realtà». L’unico motivo per parlare dei due Stati, scrivono i due accademici, è quello di mascherare lo stato attuale delle cose, che vede un solo Stato con diritti diversi per chi vive sotto il suo controllo, fondato «sulla sottomissione economica, legale e militare di un gruppo da parte di un altro: una situazione che viola il diritto internazionale e offende i valori liberali».
Se si escludono sia un futuro a due Stati che uno in cui entrambi i popoli vivano in un singolo Paese, con pari diritti, sono solo due le alternative che rimangono aperte. Una prevede «l’ulteriore radicamento della supremazia ebraica e di controlli simil-apartheid su una popolazione non ebraica che presto supererà in numero gli ebrei israeliani», la seconda «il trasferimento su larga scala di palestinesi, come alcuni ministri del governo israeliano hanno apertamente chiesto».
Il faro del diritto
La responsabilità per questa situazione è anche degli Stati Uniti che, secondo gli autori, farebbero meglio a passare a un approccio dedicato ad affrontare la situazione per quella che è. La realtà, come la descrivono Lynch e Telhami, è di un processo in cui non crede né la leadership politica né la popolazione, mentre l’apparato di sicurezza israeliano e le colonie continuano ad allargarsi, insieme alla rete di controlli e muri che rendono impraticabili anche spostamenti all’apparenza minimi all’interno del territorio. Nel frattempo gli Stati Uniti non danno segno di voler far veramente pesare il proprio ruolo per invertire la tendenza.
La raccomandazione a Washington è di «prendere atto della realtà attuale» e usare il proprio peso per spingere le parti a rispettare il diritto internazionale. «Gli Stati Uniti hanno a lungo evitato di imporre a Israele il rispetto di tali norme», hanno proseguito gli autori, accusando l’amministrazione Biden di essere «andata oltre, proteggendo Israele dalle stesse leggi degli Stati Uniti». Il riferimento è all’inchiesta del quotidiano britannico Guardian che ha scoperto il ricorso a «meccanismi speciali» da parte del dipartimento di Stato per continuare a fornire armi a Israele aggirando le norme che vietano l’assistenza militare a entità straniere sospettate di gravi violazioni dei diritti umani.
L’amministrazione statunitense dovrebbe smettere di usare risorse per difendere comportamenti che trova discutibili e contrari ai propri interessi, oltre a chiedere un cessate il fuoco, la fine immediata della guerra a Gaza e il ritorno a casa degli ostaggi israeliani il prima possibile. Dovrebbe inoltre condizionare gli aiuti a Israele al rispetto della legge statunitense e delle norme internazionali.
Se Biden non dovesse essere in grado di imporsi ora, con un tale consenso internazionale a favore della fine del conflitto, «difficilmente potranno trovarsi in una posizione di leadership per il cosiddetto “day after”». Questa presa di posizione potrebbe aprire nuovi spazi di dibattito in Israele e nei Territori palestinesi.
L’alternativa, secondo gli autori, non è praticabile. Biden potrebbe ipoteticamente riconoscere uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza, impegnarsi a non difendere più gli insediamenti israeliani di fronte alle Nazioni Unite e subordinare gli aiuti militari al rispetto del diritto internazionale. Potrebbe anche impegnare gli Stati Uniti a garantire la sicurezza israeliana all’interno dei confini concordati a livello internazionale. Ma è improbabile, concludono Lynch e Telhami, che Israele accetti queste condizioni e «nulla nei trascorsi di Biden lascia intendere che sia in grado di esercitare la pressione sufficiente per farle rispettare».
Il verdetto è netto. «I sostenitori di una rinnovata spinta per una soluzione a due Stati affermeranno che si tratta dell’opzione più realistica. È evidente che non lo sia».
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