Yousef oggi ha 14 anni e vive nella Striscia di Gaza, sotto i bombardamenti, ma ne aveva solo 10 quando raccolse un oggetto da terra, in riva al mare. Aveva la forma di una penna, o qualcosa di simile, ma in realtà era la spoletta di una bomba che poco dopo gli esplose tra le mani, provocandogli la perdita di tre dita. Come lui sono centinaia i feriti e i morti causati dalle bombe inesplose rimaste negli anni scorsi sotto le macerie del territorio costiero palestinese e più andrà avanti la guerra attualmente in corso e maggiori saranno i rischi per le generazioni future.
Il conflitto infatti è solo l’inizio. Comunque andrà a finire l’operazione militare di Israele contro Hamas, dopo il conflitto la Striscia potrebbe diventare ancor più inospitale, quasi inabitabile a causa delle migliaia di ordigni sganciati su Gaza, non tutti esplosi.
Le Nazioni Unite e le ong presenti sul campo l’hanno già visto durante le precedenti operazioni dello Stato ebraico nel 2014 e nel 2021, che durarono molto meno e videro impiegate un numero sensibilmente inferiore di bombe, pur provocando negli anni a venire centinaia di morti e feriti.
Pioggia di fuoco
Dopo due mesi di bombardamenti israeliani, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Unocha) che cita i dati del ministero della Salute della Striscia controllato da Hamas, almeno 16.248 palestinesi sarebbero rimasti uccisi tra il 7 ottobre e il 5 dicembre, di cui quasi il 70 per cento donne e bambini, oltre a 36mila feriti. Alla lista delle vittime, stando alle autorità militari dello Stato ebraico, vanno poi aggiunti almeno 88 soldati israeliani che allungano il conto dei morti dopo i circa 1.200 cittadini dello Stato ebraico, per lo più civili, uccisi nei barbari attentati terroristici del 7 ottobre.
Inoltre, secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa), al 3 dicembre quasi 1,9 milioni di persone, circa l’85 per cento dei 2,4 milioni di abitanti della Striscia, risultavano sfollati. Infine, stando allo Shelter Cluster delle Nazioni Unite, al 24 novembre oltre il 60 per cento del patrimonio edilizio della Striscia risultava distrutto o danneggiato dai bombardamenti: in tutto oltre 46mila edifici residenziali e più di 234mila unità abitative. Senza contare il danneggiamento di 25 strutture sanitarie, 11 panifici e 300 istituti scolastici, oltre ad almeno 77 moschee e tre chiese.
Tutto questo è stato causato da una vera e propria pioggia di fuoco sganciata sul territorio costiero palestinese. Secondo i dati dell’ong francese Handicap International – Humanity & Inclusion infatti, dall’inizio delle ostilità sono state lanciate su Gaza più di 12mila bombe di vario potenziale e di dimensioni comprese tra i 150 chilogrammi e una tonnellata. Un inferno mai visto prima e reso possibile dalle nuove tecnologie.
Per stessa ammissione dell’aviazione militare israeliana, nei primi cinque giorni del conflitto le forze armate dello Stato ebraico hanno sganciato sulla Striscia circa seimila bombe, pari a circa quattromila tonnellate di esplosivi. Una quantità di ordigni superiore a quante ne lanciava in un mese su Iraq e Siria la coalizione internazionale contro l’Isis (arrivata a un massimo di 5.075 ad agosto 2017) e quasi paragonabile a quante gli Stati Uniti ne utilizzavano in un intero anno di guerra in Afghanistan (il record di 7.423 risale al 2019).
La furia però non si è placata affatto: nel primo mese di raid, secondo i dati raccolti dall’Euro-Med Human Rights Monitor, Israele ha sganciato sulla Striscia oltre 25mila tonnellate di esplosivi, equivalenti a due bombe nucleari a basso potenziale. In tutto, stando a quanto riferito il 5 dicembre in conferenza stampa dal portavoce delle forze armate israeliane Daniel Hagari, in due mesi di bombardamenti, Israele ha attaccato oltre 20mila obiettivi in tutta Gaza, qualcosa di mai visto prima.
Distruzione intelligente
Con l’operazione “Swords of Iron” lanciata dallo Stato ebraico nella Striscia, Israele ha infatti realizzato un salto di qualità rispetto ai precedenti attacchi contro il territorio controllato da Hamas. Negli undici giorni di raid compiuti su Gaza nel maggio del 2021, le forze armate israeliane colpirono circa 1.500 obiettivi, una media di oltre 136 ogni 24 ore. Nei 51 giorni di operazioni contro la Striscia tra luglio e agosto del 2014 furono invece tra i cinque e i seimila , con una media di almeno 117 ogni 24 ore. Quest’anno siamo a oltre 327 obiettivi colpiti ogni giorno. Tutto merito dell’intelligenza artificiale.
Come annunciato il mese scorso, le forze armate israeliane si avvalgono infatti di un sistema intelligente denominato Habsora (letteralmente “Vangelo”). Secondo una serie di fonti citate dalla testata israelo-palestinese +972 Magazine in collaborazione con il portale israeliano Local Call, questo ha aiutato i militari dello Stato ebraico a identificare molti più obiettivi rispetto al passato: dai 50 bersagli all’anno del 2021 si è arrivati ai quasi 100 al giorno di ottobre, di cui la metà viene attaccata nel giro di poche ore. Anche con bombe ad alto potenziale.
Rischio calcolato
Sebbene le forze armate israeliane non abbiano specificato il genere di ordigni sganciati contro la Striscia, le immagini dei bombardamenti hanno insospettito alcuni esperti. Secondo Marc Garlasco, incaricato delle indagini delle Nazioni Unite sui presunti crimini di guerra in Afghanistan, Libia e Siria intervistato da Business Insider, contro Gaza potrebbero essere state lanciate bombe Mark 84 da oltre 900 chili equipaggiate con kit SPICE per essere sganciate dagli aerei da combattimento. Questi equipaggiamenti, prodotti dall’israeliana Rafael, permettono di far detonare l’ordigno in qualsiasi condizione assicurando una maggiore precisione. Tuttavia, visto l’importante potenziale esplosivo, i frammenti possono spargersi in un raggio di oltre 365 metri dal luogo dell’esplosione.
Non solo: secondo Amnesty International, nella Striscia sono stati ritrovati anche i resti del sistema di guida Joint Direct Attack Munition (JDAM) prodotto dalla statunitense Boeing, anch’essi utilizzati per le bombe Mark 84. Come il suo equivalente israeliano, il kit permette di convertire le bombe in munizioni di precisione capaci di colpire con qualsiasi condizione atmosferica, ma sempre interessando un’area piuttosto vasta.
L’uso di tali ordigni è spesso motivato dall’obiettivo di distruggere la rete di tunnel sotterranei utilizzati da Hamas e dalla Jihad Islamica. A questo scopo, le bombe potrebbero essere armate in modo da non esplodere all’impatto ma soltanto dopo aver attraversato una serie di superfici. Questo però aumenta il rischio di lasciare sul terreno testate inesplose.
Un’eredità letale
A seconda della tipologia di ordigno, secondo le stime del Servizio di Azione Antimine delle Nazioni Unite (Unmas), una bomba su dieci non esplode come dovrebbe aumentando i rischi di morte e ferimento dei civili dopo la fine del conflitto. Ovviamente, l’aumento del numero di testate lanciate sul territorio costiero palestinese incrementa tale pericolo per gli anni e le generazioni a venire. Le operazioni di sminamento richiedono infatti lunghe e vaste evacuazioni, rendendo così intere zone inabitabili finché non bonificate. Se, saranno bonificate.
Per l’esperto dell’Unmas Charles Birch, intervistato dal Washington Post, potrebbero essere necessari fino a 30 appaltatori che scavano tra le macerie per più di un mese per trovare e disinnescare una singola bomba a Gaza, a un costo che può arrivare fino a 40mila dollari per ordigno. Almeno per quelli equipaggiati con i sistemi statunitensi. Per gli altri invece non esistono al momento stime di costi e tempi.
In realtà il problema a Gaza esiste già da molti anni. I bombardamenti effettuati da Israele sulla Striscia durante le operazioni “Protective Edge” del 2014 e “Guardians of the Wall” del 2021 hanno lasciato agli abitanti un’eredità letale dovuta ai resti di migliaia di bombe inesplose. L’entità precisa di questa contaminazione esplosiva non è nota, ma le Nazioni Unite stimano che solo nel 2014 la Striscia contasse quasi settemila tra ordigni abbandonati o inesplosi. Da allora, sotto la supervisione dell’Unmas, nel territorio costiero palestinese sono stati rimossi e distrutti 8.786 residuati bellici esplosivi e sono stati individuati 21 siti contenenti bombe sepolte in profondità, di cui 18 dichiarati sicuri. Nel 2021 poi, una squadra di smaltimento esplosivi del ministero dell’Interno di Gaza, controllato da Hamas, riferì alla stampa di aver compiuto almeno 1.200 operazioni di ricerca di ordigni inesplosi a seguito degli 11 giorni di bombardamenti da parte di Israele. Operazioni poi interrotte a causa della mancanza di fondi ed equipaggiamenti adeguati: in certi casi si era infatti arrivati a scavare sotto le macerie con mezzi di fortuna e rudimentali.
Intanto però, dal 2014 questi residuati bellici hanno provocato 278 morti e feriti soltanto a Gaza. Un dato destinato a salire nei prossimi anni, anche se la guerra dovesse interrompersi subito, e destinato ad aggravare la situazione nella Striscia dove nel 2022, secondo l’Unocha, il 21 per cento delle famiglie contava tra i suoi membri almeno una persona con disabilità. Proprio come Yousef che, già prima dello scoppio di questa guerra, non frequentava la scuola da quasi un anno a causa del trauma psicologico subito e ora deve guardarsi di nuovo dalle bombe.
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