Yousef ha perso i genitori, la moglie, quattro figli e altri trenta parenti quando, il 25 ottobre scorso, una bomba sganciata dalle forze armate di Israele (Idf) ha abbattuto la Torre al-Taj, a Gaza City, provocando almeno 120 vittime. Con 37 morti accertati, la sua famiglia è stata la più colpita tra le centinaia di residenti e sfollati che vivevano nell’edificio.
Tra le poche sopravvissute c’era anche Lurein, che ha da poco compiuto un anno ma che aveva solo sette mesi quando sua madre Sali, suo padre Khalil e i suoi fratelli e sorelle Nisrin, Talin e Akram, trasferitisi da poco nel palazzo, furono uccisi nel raid compiuto dalle Idf senza alcun preavviso.
Stessa sorte è toccata il 31 ottobre anche a Israa, che ha perso i genitori, la sorella, il cognato, due nipoti e altri sedici parenti quando quattro bombe sganciate nell’arco di dieci secondi colpirono la Torre Mohandessin, un condominio di sei piani a sud del Wadi Gaza, non lontano dal campo profughi di Nuseirat, nel centro della Striscia.
La sua fu una delle quattordici famiglie sterminate dal raid, che in totale provocò 106 morti, compresi 54 minori. Tra le vittime almeno 23 suoi parenti, uccisi insieme ai bambini che giocavano a calcetto davanti al condominio e ad alcune persone che si erano ritrovate nell’alimentari al pianterreno per ricaricare i cellulari.
Allora, insieme ai circa 200 residenti, i venti appartamenti del palazzo ospitavano almeno 150 persone fuggite da altre zone di Gaza. Tra loro c’era anche la famiglia di Ameera, che solo il giorno prima si era trasferita dalla zia Wafa con il marito, la figlia e i genitori per scappare dal suo villaggio di al-Moghraqa evacuato dall’Idf. Quando la prima bomba colpì l’edificio erano tutti riuniti in due stanze: dei 24 presenti, moriranno in 20. Anche stavolta, secondo le testimonianze, nessuno si aspettava il raid, compiuto senza alcun avvertimento in una presunta “zona sicura” verso cui Israele indirizzava i palestinesi evacuati dal resto della Striscia.
Per Human Rights Watch, vista l’apparente mancanza di obiettivi militari, potrebbe trattarsi di un crimine di guerra. Ma lo sterminio di intere famiglie non è una novità per le operazioni militari israeliane a Gaza, anche se durante i sei mesi dell’attuale conflitto il numero di vittime collaterali è più alto che in passato.
Famiglie sterminate
Basta guardare alle statistiche delle Nazioni Unite: nelle prime sette settimane di guerra a Gaza, su 14.800 morti registrati dal 7 ottobre al 23 novembre scorso almeno 1.400 famiglie palestinesi avevano perso più di tre parenti in un unico raid. Durante lo stesso periodo del conflitto di dieci anni fa, su 2.133 persone uccise nella Striscia tra il 7 luglio e il 28 agosto 2014, il dato si fermava a “sole” 142 famiglie. Un rapporto cresciuto di di quasi il 30 per cento e rimasto quasi costante nei mesi successivi visto che, secondo gli ultimi dati disponibili del ministero della Salute di Gaza controllato da Hamas, al 7 aprile erano 3.017 le famiglie con più di tre parenti deceduti su 33.207 morti complessivi.
In quei 51 giorni del 2014, le Idf colpirono circa 5.260 obiettivi con una media di 103 ogni 24 ore. Oggi, secondo i dati forniti dai militari israeliani e riportati dall’Institute for National Security Studies (Inss), siamo a circa 32mila obiettivi colpiti, oltre 177 ogni giorno. Tutto merito dell’intelligenza artificiale.
Le Idf si avvalgono infatti di un sistema intelligente denominato Habsora (letteralmente “Vangelo”), che aiuta i militari dello Stato ebraico a identificare molti più obiettivi rispetto al passato: dai 50 bersagli all’anno del 2021 si è arrivati ai quasi 100 al giorno di ottobre, di cui la metà attaccata nel giro di poche ore. Ma non finisce qui: il programma consente infatti di selezionare i cosiddetti “power targets”, obiettivi di natura non strettamente militare come abitazioni private, edifici pubblici, infrastrutture e grattacieli, il cui abbattimento ha lo scopo di shockare la popolazione che, teoricamente, dovrebbe essere avvisata prima del bombardamento. Tuttavia, secondo diverse fonti citate dalla testata israelo-palestinese +972 Magazine in collaborazione con il portale israeliano Local Call, questo non avviene sempre, come nei casi delle Torri al-Taj e Mohandisin.
Bersagli umani
Ma c’è un altro motivo che spiega un così elevato numero di morti civili. Secondo un’altra inchiesta della stessa testata, le Idf usano anche un altro programma, denominato Lavender (letteralmente “Lavanda”), che identifica invece i “bersagli umani”, una lista di circa 37mila persone considerate legate a Hamas e alla Jihad Islamica e potenzialmente da uccidere. Il software assegna loro un punteggio in base ai dati raccolti dai sistemi di sorveglianza israeliani sulla Striscia e li classifica a seconda della loro importanza nell’organizzazione.
L’affidabilità del programma però è limitata al 90 per cento, il che significa che uno su dieci dei potenziali obiettivi non ha nulla a che fare con i gruppi armati. In più, per ogni target, esiste un numero inevitabile di vittime collaterali, visto che i raid colpiscono spesso le case dei bersagli o i loro nascondigli in aree densamente popolate.
Non solo: a differenza delle altre operazioni nella Striscia, le Idf hanno cominciato a perseguire anche obiettivi di più basso profilo: non solo esponenti significativi ma anche combattenti e fiancheggiatori delle organizzazioni terroristiche. Su questi bersagli però, decine di migliaia, la verifica dell’intelligence sugli indirizzi di residenza e persino sull’effettivo livello di affiliazione è molto limitata se non, a volte, del tutto assente, il che provoca raid dallo scarso valore militare costati la vita a decine di civili. Anche perché, per obiettivi di così poca utilità non vengono certo usate munizioni “intelligenti”.
Come rivela una valutazione interna della National Intelligence statunitense, citata dalla Cnn, almeno il 40 per cento delle 29mila munizioni sparate da Israele sulla Striscia nei primi due mesi di guerra non erano guidate, il che ha di per sé aumentato il rischio di vittime collaterali. D’altronde, nei primi giorni del conflitto, fu il portavoce dell’Idf Daniel Hagari a chiarire che «l’enfasi è sui danni, non sulla precisione» dei raid.
Non sorprende allora che i conti non tornino: secondo il ministero della Salute di Gaza controllato da Hamas, in sei mesi di guerra sono morte oltre 33mila persone e più di 75mila sono state ferite. Per l’Onu quasi 14mila erano minori e 9mila donne, mentre le Idf rivendicano l’uccisione di 13mila terroristi.
Il problema è mettersi d’accordo su questa definizione: secondo fonti militari in servizio a Gaza citate dal quotidiano israeliano Haaretz, «in pratica, un terrorista è chiunque sia stato ucciso dopo essere entrato nella zona di combattimento dell’Idf». D’altra parte, ha spiegato un’altra fonte, «non ci mettiamo a inventariare i corpi: nessuno può determinare con certezza chi sia un terrorista».
Così nel conto dei morti per sbaglio possono finirci anche un centinaio di giornalisti, almeno 203 operatori umanitari e 685 operatori sanitari. Secondo i vertici politici e delle forze armate di Israele, non si tratta certo di uccisioni intenzionali. Come ha spiegato il premier Benjamin Netanyahu dopo la strage di sette operatori umanitari della no-profit statunitense World Central Kitchen, «succede in guerra».