Il valico egiziano di Rafah è l’unica porta di uscita dalla Striscia di Gaza, un fazzoletto di terra di 365 chilometri quadrati abitato da oltre 2 milioni di persone che si affaccia sul Mar Mediterraneo e che dal 2007 è sotto embargo da parte di Israele ed Egitto a seguito della vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi dell’anno precedente.
Dal 7 ottobre scorso, con lo scoppio della guerra, la pressione al valico egiziano è aumentata, con l’esodo di migliaia di persone che dal nord della Striscia sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni a causa dei pesanti bombardamenti israeliani, dirigendosi verso sud, in direzione di Khan Yunes e Rafah. Secondo le Nazioni Unite, l’85 per cento della popolazione palestinese è sfollata e cerca rifugio in ripari di fortuna, senza cibo, acqua o corrente elettrica, in una situazione umanitaria catastrofica.
Burocrazia e trafficanti
Il valico di Rafah è diviso in due parti: c’è il lato egiziano, gestito dal Cairo, e quello palestinese, controllato dal governo della Striscia di Gaza, Hamas. Ed è proprio in prossimità dei due lati del confine che, oltre ai militari, prospera una fitta rete trafficanti: sono decine gli intermediari che, in cambio di denaro, promettono di far uscire ed entrare le persone rimaste bloccate ai due lati del valico, da Gaza all’Egitto e viceversa.
Le trattative si svolgerebbero alla luce del sole in mezzo alle migliaia di sfollati accampati al confine, in cerca di una via d’uscita, ora che l’esercito israeliano ha ampliato le sue operazioni militari anche al sud di Gaza, colpendo persino il valico di Rafah. Prima della guerra il passaggio era consentito secondo un calendario stabilito di volta in volta dalle autorità egiziane, in stretta collaborazione con il governo israeliano per mantenere attivo l’embargo sulla Striscia.
Dal 7 ottobre invece tutti i permessi di lavoro e studio per i cittadini palestinesi in Egitto sono stati revocati e si esce ufficialmente solo per gravi motivi di salute o nel quadro delle tregue stabilite tra Hamas e Israele e solo dopo aver fatto i conti con una lenta burocrazia: il primo step è registrarsi in una lista presso l’Ufficio governativo degli esteri palestinese a Gaza per poi attendere che questo elenco venga valutato e inviato alle autorità israeliane, che verificano se tra i nomi figurano dei ricercati. Le autorità di Tel Aviv, a loro volta, inviano i nomi al governo egiziano che procede a un controllo ulteriore.
Se la richiesta viene approvata, si acquisisce un numero in graduatoria e si attende l’apertura del valico, che può durare giorni, settimane o mesi a seconda dei combattimenti sul campo. Ma ottenere l’approvazione non significa uscire. Per attraversare i cancelli e passare il confine bisogna pagare. E tanto. In tempi normali il prezzo è compreso tra i 500 e i 700 dollari a testa mentre, ad oggi, le testimonianze raccolte da TPI da Gaza parlano di cifre che variano tra i 5mila e i 10mila dollari a persona, che finiscono nelle mani di intermediari vicini alle autorità egiziane per organizzare il passaggio.
Scafisti del deserto
Fino al 2019, il viaggio delle persone che passavano il confine entrando in Egitto era ben rodato: dopo aver superato il valico pagando, ci si affidava ad altri trafficanti locali che a bordo di minivan continuavano la tratta fino alla destinazione prescelta: l’aeroporto del Cairo o di Arish, nel Sinai.
Mahmud viene da Gaza ma ora vive all’estero e ci racconta le difficili condizioni di viaggio che ha vissuto con la famiglia una volta superato il valico nel 2015, da Rafah verso la capitale egiziana: «Siamo stati scortati da mezzi militari egiziani, in piccoli bus, eravamo in totale in 40 in un bus da 20 posti, tutti stipati: alcuni seduti altri in piedi altri ancora sdraiati nel corridoio del minivan. Non si respirava e avevamo paura di non arrivare a destinazione.
Nelle brevi soste, in mezzo al deserto, eravamo controllati a vista dall’esercito, gli stessi che ci obbligavano a comprare da loro cibo ed acqua a prezzi altissimi. Ad ogni checkpoint della polizia eravamo costretti a pagare altri soldi per continuare il viaggio. Il percorso, che di base è di cinque ore, è durato più del doppio e ci è costato quattromila dollari. Raggiunto l’aeroporto del Cairo abbiamo atteso a terra per ore in una grande sala di passare i controlli di sicurezza prima di farci uscire e di essere finalmente liberi di muoverci».
Il servizio Vip
Oggi invece, la tratta Gaza-Cairo/Arish è gestita dalla Hela Consulting and Services: azienda egiziana di turismo e trasporti nata nel 2019, compartecipata – al 49 per cento – da soggetti privati e – al 51 per cento – dall’esercito, con uffici al Cairo e a Gaza, che nelle pubblicità promette viaggi comodi oltre il confine con trattamenti Vip e rapidità delle pratiche burocratiche.
Da una ricerca approfondita, questa azienda non risulta nemmeno registrata negli elenchi nazionali degli operatori turistici presso il ministero del Turismo egiziano, non è chiaro dunque come possa operare come agente di turismo e trasporti in mancanza di un’autorizzazione formale. Resta il fatto che è l’unica azienda a cui è permesso avere all’interno del valico di Rafah, dal lato egiziano, un’enorme sala Vip con un ristorante e spazi riservati ai suoi clienti, con servizi di prima classe.
Online non è possibile prenotare i biglietti, bisogna recarsi di persona presso l’ufficio della società a Gaza e contrattare il prezzo: Layla ci racconta di aver pagato il biglietto 7mila dollari in contanti per la madre malata: «Speriamo ci facciano passare presto», dice a TPI.
Legami al vertice
La Hela Consulting and Services fa parte di un più vasto complesso di aziende che operano sotto l’ombrello della “Organi Group”, società controllata da Ibrahim Al Organi, un imprenditore vicino alle autorità egiziane, e da Luai Zamzam, un uomo dei servizi di sicurezza militari. Al Organi era stato arrestato nel 2008 con l’accusa di traffico di armi e di aver sequestrato, assieme a un noto trafficante di droga, Salem Lafy, un’intera pattuglia di polizia rea di essere responsabile della morte del fratello, Ahmed Al Organi, trovato cadavere in circostanze poco chiare nel deserto del Sinai.
I due però restano in carcere appena due anni e vengono rimessi in libertà nel 2010 grazie a un’amnistia presidenziale. Nel 2015, Al Organi compare al fianco del presidente egiziano Al Sisi nella guerra al terrorismo in Sinai: è al comando di una milizia irregolare filo-governativa che conta migliaia di uomini, chiamata “Unione delle tribù armate del Sinai”, accusata in diversi rapporti di Human Rights Watch risalenti al 2019 e al 2021 di aver commesso, in collaborazione con l’esercito e i servizi di sicurezza egiziani, arresti arbitrari, torture e sparizioni forzate oltre a decine di esecuzioni extra-giudiziarie e della distruzione sistematica di migliaia di abitazioni e dello sfollamento dei civili egiziani nella penisola.
La milizia armata di Al Organi è l’unica a cui, all’interno del Sinai, è consentito il controllo, il fermo, l’arresto e la consegna alle forze di sicurezza e all’esercito di sospetti terroristi, senza alcuna autorizzazione giudiziaria. Ma la collaborazione tra il boss Al Organi e il governo del Cairo non si ferma qui.
Altri affari nella Striscia
Oltre al business del traffico di esseri umani, Al Organi sembra implicato anche in quelli del traporto merci e della ricostruzione a Gaza. La logistica del valico infatti è gestita da un’altra azienda del boss egiziano: si chiama “Abnaa Sinai”, è specializzata in logistica ed edilizia e anche questa è partecipata con fondi dell’esercito.
Le merci che passano in entrata dal valico di Rafah verso Gaza, sarebbero gestite per conto del governo da questa controllata, la stessa scelta dal Cairo come mandataria per gli appalti di ricostruzione a Gaza tra il 2014 e il 2021, l’unica società egiziana operante nella Striscia negli anni scorsi, con un giro d’affari da 500 milioni di dollari.
Nell’ottobre scorso, a guerra già iniziata, accanto al primo ministro egiziano Mostafa Madbuly in visita al valico di Rafah c’era proprio lui, Al Organi, che in un’intervista rilasciata alla tv di stato del Cairo, si è detto pronto ad aiutare i palestinesi e a far entrare nella Striscia cibo, benzina e altri generi di prima necessità attraverso le sue controllate, mentre nel suo discorso il premier citava l’azienda del boss come ente sostenitore degli sforzi governativi nel sostegno umanitario a Gaza.
A novembre poi, durante la tregua tra Hamas e Israele, le prime cisterne di carburante a entrare nella Striscia erano proprio le sue: sui mezzi in entrata nella Striscia c’era il logo della sua società, “Abnaa Sinai”. Senza contare che negli ultimi anni l’imprenditore egiziano ha visitato diverse volte il territorio costiero palestinese durante i lavori di ricostruzione, rimarcando il suo ruolo di inviato del governo egiziano.
“Pronti a partire?”
Secondo le autorità palestinesi sarebbero 700mila gli sfollati accampati in ripari di fortuna o da parenti e amici a seguito dei combattimenti in corso. Intorno al valico si è creata una vastissima baraccopoli fatta di tende, lamiere, scarti mentre cumuli di fumo riempiono l’aria: per scaldarsi e cucinare il poco cibo rimasto infatti i civili sono costretti a bruciare carta, plastica nel tentativo di sopravvivere al freddo e alla fame.
Intanto i combattimenti continuano in tutta la Striscia di Gaza, e si registrano anche al sud, nell’area di Tal-Sultan, a pochi chilometri da Rafah, dove sorge la tendopoli. Il timore delle autorità egiziane è che gli sfollati possano premere a migliaia e passare il valico in maniera irregolare creando una situazione complessa da gestire e avviando un possibile sfollamento della popolazione del territorio palestinese in Egitto, un’ipotesi che il Cairo ha sempre rifiutato con forza.
Il valico intanto resta ufficialmente chiuso ma è sempre aperto al business. In vista di una possibile tregua nei prossimi giorni tra Hamas e Israele, sul profilo Facebook dell’azienda Hela Consulting è stato pubblicato un annuncio che invita a preparare i passaporti (e i soldi) per le prossime aperture del valico.
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