«Siamo stati arrestati solo per aver manifestato solidarietà alla Palestina, ma i poliziotti ci hanno accusato di presunte violenze e inesistenti vandalismi». A raccontare cosa è successo il 14 maggio scorso, intorno alle 11 del mattino, presso l’Università Nomikh, la Facoltà di Giurisprudenza situata nel centro di Atene, è una delle protagoniste (e vittime) di questa storia, una ragazza italiana – la chiameremo Giulia – che vive e lavora nella capitale ellenica.
«La nostra era un’occupazione pacifica, una delle tante che si vedono in queste settimane nelle città europee, per chiedere lo stop dello spargimento di sangue a Gaza e per condannare la complicità del mondo accademico nel genocidio in corso», ricorda Giulia a TPI. «La Facoltà è inoltre spesso occupata, nulla di nuovo agli occhi del Paese: lo scorso anno gli atenei greci sono stati occupati per più di sei mesi a causa della riforma sulla privatizzazione dell’Università, e nessuno è mai stato arrestato o messo in un CPR. Il 14 maggio, dieci ore dopo l’inizio dell’occupazione, siamo stati portati in un commissariato. È chiara la posizione politica».
Stranieri indesiderati
Giulia mi racconta che l’ordine di rinchiudere in un CPR lei e parte dei 27 ragazzi arrestati – 19 con cittadinanza greca e 9 stranieri – è arrivato da Kyriakos Mitsotakis in persona, il primo ministro greco. Dopo aver trascorso una notte in commissariato, senza poter contattare gli avvocati per diverse ore, i giovani sono stati portati davanti al Tribunale per reati minori di Atene, che ha rinviato il caso a una data successiva.
«Ci hanno accusato di disturbo della quiete pubblica, detenzione di armi e di esplosivi. Accuse infondate: i bastoni e i fuochi d’artificio trovati dalle forze dell’ordine erano in un edificio separato dal nostro, chiuso a chiave, a cui noi non avevamo accesso», prosegue Giulia. In seguito, gli agenti di polizia hanno rilasciato i cittadini greci e isolato i 9 imputati europei in una stanza adiacente, con la motivazione che dovevano tornare al commissariato per «controllare i loro passaporti», come fu detto in quel momento a uno degli avvocati che aveva contattato telefonicamente il Dipartimento di Sicurezza dello Stato.
Nel pomeriggio del 15 maggio, la Sotto-direzione Stranieri ha pertanto informato gli avvocati che i detenuti erano stati inseriti nella lista degli stranieri indesiderabili in quanto pericolosi per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. Ma, come riporta il comunicato stampa redatto dagli avvocati, agli stessi europei non è stato comunicato nulla, poiché non era presente un interprete per la lingua inglese (tanto meno per il francese, il tedesco, l’italiano o lo spagnolo) e non è stato notificato loro alcun documento. Tutto ciò che è stato detto e compreso è stata la parola «deportazione», senza ulteriori spiegazioni.
La volontà di affamare e la sospensione dei diritti
«La sera stessa siamo stati trasferiti nel Centro di detenzione amministrativa di Amygdaleza, un CPR distante un’ora da Atene che versa in condizioni deplorevoli. Abbiamo dormito per una decina di giorni in container, isolati dal resto degli altri ospiti», ricorda Giulia.
«Ad Amygdaleza c’è la sezione per gli uomini, quella per le donne e la terza per le famiglie. Noi eravamo in una quarta, all’interno del reparto degli uomini. Nel container di fianco al nostro c’erano circa cinquanta egiziani, che dividevano cinque bagni e una sola doccia calda. Considera che all’interno dei container non c’è aria condizionata, il personale medico sanitario scarseggia, il supporto psicologico è stato tagliato questo lunedì. Il bagno era un buco nel pavimento pieno di ratti, il cibo che ci veniva dato – o meglio, buttato davanti al cancello – sembrava essere scaduto e le quantità erano davvero scarse. La domenica veniva servito un solo pasto, patate bollite. È chiaro che l’intento sia quello di affamare volontariamente i detenuti».
Amygdaleza è nota per essere un luogo di violenza, dove i diritti umani non sono rispettati. Ad aprile scorso, sono stati arrestati con l’accusa di tortura quattro poliziotti che lavoravano nel centro. «Uscivamo per la conta due volte al giorno, una avveniva la notte, mentre dormivamo. A volte la polizia decideva che i vestiti o l’acqua portati da fuori dagli amici non potevano passare. A una ragazza che deve prendere due volte al giorno psicofarmaci, non sono stati consegnati per due giorni interi».
Giulia prosegue il racconto riportando episodi di violenza da parte della polizia: una ragazza è stata presa per il collo durante la prima notte in questura, altri sono stati spinti o trascinati di peso sul bus. «Eravamo ammanettati l’uno con l’altro». «Sembra strano, ma dentro il CPR eravamo quelli trattati meglio: siamo europei, la polizia sa che abbiamo accesso ad avvocati e social media. Detto ciò, non ci sono mai venuti incontro per quanto riguarda la comunicazione. I documenti ci venivano forniti in lingua greca, e noi eravamo costretti a firmare senza capire nulla. Anche il giorno in cui ci hanno rilasciati ci hanno obbligati a firmare il foglio scritto in greco, minacciandoci che se non l’avessimo fatto, saremmo tornati dentro».
La maggior parte degli ospiti del CPR trascorrono mesi dentro il centro, anni. A volte vengono rilasciati per poi essere arrestati davanti al cancello. In molti, mi racconta Giulia, sono stati violentemente picchiati perché protestavano, col digiuno.
Vittoria parziale
«Abbiamo vinto il ricorso contro la detenzione ma l’ordine di deportazione è ancora valido. Tecnicamente il 27 giugno ho il termine massimo per andarmene volontariamente dalla Grecia. Stiamo iniziando il ricorso alla deportazione non perché abbiamo intenzione di vivere qui, ma perché vogliamo ottenere giustizia. In un Paese normale e in una situazione normale un capo di governo che pubblicamente dichiara di aver preso la decisione amministrativa ad personam per rinchiudere dei cittadini incensurati in un CPR non deve essere ragione di vanto».
Mentre scriviamo questo articolo, sabato 1 giugno, una ragazza francese è ancora dentro Amygdaleza, da sola. Sta facendo lo sciopero della fame da più di una settimana. «Non ci arrenderemo. Se lo Stato greco arresta una persona che manifesta pacificamente e la rinchiude in un CPR, nessuno è più al sicuro».