Prende il via il più importante processo antitrust degli ultimi decenni. A più di 20 anni dalla sconfitta di Microsoft, l’amministrazione Biden porta alla sbarra Google, accusata di aver «mantenuto illegalmente» la propria posizione di monopolio.
La posta in palio è alta e riguarda la piccola barra bianca su cui Google ha costruito un impero da oltre 1.700 miliardi di dollari (1.590 miliardi di euro). «Questo caso riguarda il futuro di internet e la possibilità che il motore di ricerca di Google si trovi mai a fronteggiare una concorrenza significativa», ha dichiarato Kenneth Dintzer, a capo del team di legali del dipartimento di Giustizia statunitense, che ha trascinato Google in tribunale insieme ai procuratori di 38 Stati.
Una battaglia bipartisan
L’accusa principale è quella di aver stretto accordi multimiliardari con società come Apple e Samsung per impedire ad altri rivali di insidiare il suo primato nelle ricerche web. Queste pratiche, secondo il governo statunitense, hanno posto un freno all’innovazione e danneggiato concorrenti, inserzionisti e consumatori. Secondo l’azienda invece, il successo di Google è dovuto semplicemente alla superiorità del suo motore di ricerca, che gli utenti scelgono liberamente di usare.
È la prima volta dagli anni ’90 che il governo statunitense promuove una causa antitrust contro una big del tech. Il monopolista allora era la Microsoft di Bill Gates, condannata nel 2001 per aver imposto ai consumatori il proprio browser, Internet Explorer. Questa volta, sarebbe Google a limitare la scelta degli utenti. Come allora, sostiene il dipartimento di Giustizia, è necessario ricorrere ai tribunali per «ripristinare il ruolo della concorrenza e aprire le porte alla prossima ondata di innovazione».
Attualmente il gigante di Mountain View controlla il 90% circa del mercato dei motori di ricerca, lasciando a concorrenti come Bing le briciole. Un dominio che, secondo l’amministrazione statunitense, è il frutto di accordi restrittivi con produttori di smartphone, sviluppatori di browser e compagnie telefoniche. Le intese, dal valore annuo di oltre 10 miliardi di dollari, servono a garantire che il motore di ricerca risulti l’alternativa predefinita su pc e cellulari.
Il processo è iniziato il 12 settembre scorso, a quasi tre anni da quando l’amministrazione statunitense, guidata all’epoca da Donald Trump, aveva intentato la causa come parte di un’offensiva bipartisan contro i giganti della tecnologia.
Nelle prossime settimane, i legali del dipartimento di Giustizia statunitense dovranno dimostrare come, a partire dal 2010 , Google ha usato tattiche anti-competitive per difendere il proprio enorme vantaggio nelle ricerche web da possibili rivali come Yahoo, Bing e DuckDuckGo. Per il gruppo Alphabet, le ricerche sono l’ingrediente essenziale nel suo business più importante, quello pubblicitario: nel 2022 le inserzioni legate alla ricerca hanno generato quasi il 60% dei ricavi del gruppo a cui appartiene Google, per un ammontare pari a 162,45 miliardi di dollari.
Secondo l’accusa, gli accordi rappresentano per Google una «potente arma strategica» che ha consentito all’azienda di accumulare sempre più dati con cui migliorare il proprio prodotto. «Questo circolo vizioso, questa ruota, gira da più di 12 anni», ha sintetizzato Dintzer. «E gira sempre a vantaggio di Google».
Carte scoperte
A sostegno di questa tesi, il dipartimento di Giustizia cita mail e comunicazioni interne in cui i dipendenti di Google discutono delle scelte dell’azienda. «Se Microsoft [Bing] avesse lo stesso traffico che abbiamo noi, la sua qualità migliorerebbe in maniera significativa, mentre se noi avessimo lo stesso traffico che hanno loro, la nostra diminuirebbe in maniera significativa. Questo è un fatto», recita un messaggio risalente al 2009, scritto da un ingegnere di Google.
«Dobbiamo incentivare gli operatori telefonici a includere Google», riporta un’altra email del 2011. «Senza un accordo di ricerca esclusivo, un grande operatore può includere alternative a Google e lo farà… Se non lo faremo noi, scommetto che saranno Microsoft e Yahoo a fare accordi tramite gli operatori per la ricerca su Android».
Altri messaggi sono stati inviati dal capo-economista di Google, Hal Varian, citato come primo testimone. Durante la prima udienza, Dintzer ha letto diverse mail in cui Varian si sincerava dei termini usati dai colleghi nelle comunicazioni. In una del 2003 invitava a essere “sensibili” alla percezione di un comportamento monopolistico da parte di Google, chiedendo di evitare frasi sopra le righe come quelle che avevano avuto molto risalto nel processo a Microsoft, prima fra tutte la celebre richiesta di «togliere l’aria» alla concorrenza. Un altro documento è una presentazione del 2011 in cui vengono esposte regole per evitare termini off limits in tema antitrust (il titolo: “Basi antitrust per il team ricerca”). Vietate parole come “scala”, “effetti di rete” e “pacchetto” e qualsiasi metafora bellica o sportiva. Un documento interno, letto da Dintzer, invita inoltre a evitare riferimenti a “mercati o quote di mercato o posizione dominante”.
Diverse conversazioni non sono agli atti perché Google avrebbe cercato di occultarle. Dintzer ha accusato l’azienda di aver reso gli avvocati partecipi degli scambi per poterli mantenere riservati, in quanto soggetti al segreto professionale. Ha anche mostrato un messaggio con cui l’amministratore delegato Sundar Pichai chiedeva di eliminare la cronologia della chat. «Hanno cancellato la storia, vostro onore, in modo da poterla riscrivere qui in quest’aula di tribunale», ha detto Dintzer.
Solo «frammenti e documenti fuori contesto», ha minimizzato John Schmidtlein, avvocato dell’azienda. Per i legali di Google, il motivo del successo dell’azienda non è da cercare negli accordi per dare risalto al motore di ricerca, paragonati a quelli che i marchi di cereali stringono con le catene di supermercati per posizionare i propri prodotti sugli scaffali. Sono gli utenti invece a scegliere liberamente l’alternativa che ritengono migliore.
È il caso, ricorda l’azienda, di chi usa Windows e generalmente sceglie di fare ricerche con Google nonostante i prodotti del gruppo Alphabet non siano preinstallati sui pc. O quello degli utenti dei browser Safari (Apple) o Firefox (Mozilla), che possono cambiare il motore di ricerca predefinito e tipicamente decidono di non farlo. Una prova, secondo i legali di Google, che non sono gli accordi contestati dal dipartimento di Giustizia a garantire la posizione di Google, ma le scelte degli utenti.
Chi paga
Dal punto di vista dell’accusa, la soddisfazione dei consumatori non basta però a giustificare le tattiche bollate come anti-competitive. Il comportamento di Google avrebbe infatti ostacolato la concorrenza, impedendo ai potenziali rivali di innovare i propri prodotti. Senza queste pratiche, aziende come Microsoft avrebbero più margine per migliorare la propria offerta, potendo contare su una maggiore quantità di ricerche.
Il risultato, secondo il governo statunitense, è un peggioramento dell’esperienza per i consumatori, anche dal punto di vista dell’utilizzo dei dati personali. Se Google non avesse potuto limitare la concorrenza, secondo Dintzer, sarebbe stata costretta a fare di più per tutelare la privacy degli utenti, problema annoso per l’azienda di Mountain View.
Altre vittime delle pratiche contestate sono gli inserzionisti. Secondo l’accusa, Google ha sfruttato la sua posizione di monopolio per chiedere prezzi più alti sulle pubblicità che compaiono nelle pagine dei risultati delle ricerche. Un aspetto che sarà affrontato in maniera approfondita anche in un’altra causa, intentata dall’amministrazione americana lo scorso gennaio. I 10 miliardi che Google paga ogni anno si traducono così in un «enorme costo per la collettività», ha detto Dintzer.
Cosa cambierà
Non si tratta dell’unico caso che Google deve affrontare negli Stati Uniti. Un’altra causa federale riguarda, come accennato, la violazione delle norme sulla concorrenza nel mercato pubblicitario.
Altri procedimenti promossi dagli Stati riguardano la privacy, la concorrenza nel Play Store e anche altre presunte violazioni di norme antitrust.
Per quanto riguarda il settore del tech, anche altri big sono finiti sotto la lente dell’amministrazione statunitense. Negli ultimi mesi la Federal Trade Commission (Ftc), guidata dalla giovane Lina Khan, ha cercato, finora senza successo, di bloccare l’acquisizione da parte di Microsoft del produttore di videogiochi Activision Blizzard. In precedenza aveva tentato di fermare Meta dall’acquistare una start-up della realtà virtuale.
Ma il processo più importante, e quello destinato a fare da spartiacque, è quello appena iniziato. Dall’esito di “U.S. v. Google” si capirà se la legislazione antitrust attualmente in vigore nel paese, basata su norme risalenti al 1890, è ancora attuale. O se saranno necessarie nuove leggi per combattere i monopoli del 21esimo secolo.
La sentenza non arriverà prima del 2024. Nelle prossime settimane saranno probabilmente sentiti l’ad di Google, Sundar Pichai, e dirigenti di Apple, oltre a esponenti di rivali come Microsoft e DuckDuckGo. Nel caso di un verdetto di colpevolezza, il giudice Amit Mehta dovrà dare il via a un altro processo per stabilire le pene. Nel caso probabile di un ricorso, ci vorranno anni per mettere la parola fine al caso.
Se Google dovesse perdere, il giudice potrebbe ordinare di spezzettarla. Una misura considerata drastica dagli esperti, che ritengono più probabile l’imposizione di nuovi vincoli sulle attività dell’azienda, che impediscano ad esempio accordi come quelli stretti con Apple e Samsung. Un esito simile a quello del processo a Microsoft, terminato nel 2001 con un patteggiamento che, secondo molti osservatori, ha spianato la strada a una nuova generazione di aziende. Prima fra queste, una start-up chiamata Google.
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