Un’inchiesta di The Atlantic fa luce su di un fenomeno crudele e quanto mai attuale: la schiavitù. Due storie diverse, ma di un dramma comune. Ko Lin è un ragazzo del Myanmar che come tanti altri della stessa età, un giorno ha deciso di andarsene di casa per cercare lavoro. Un amico come compagno d’avventura e un bagaglio pieno di speranze hanno segnato l’inizio di un viaggio che si è poi trasformato in una drammatica esperienza. Assunto come scaricatore di camion, che a decine varcano ogni giorno il confine trasportando dalla Thailandia qualsiasi tipo di merce, Ko Lin riesce a guadagnare quanto basta per tornare a casa e vivere serenamente con qualche risparmio da parte. Ma sulla strada del ritorno, incontra una persona che offre ai due amici un’interessante proposta lavorativa.
Dietro a quella allettante offerta si nascondeva l’inizio del loro incubo. Ko Lin e il suo compagno di viaggio erano caduti nella rete dei trafficanti umani. Otto pericolosi giorni di cammino attraverso la foresta prima di arrivare a Chonburi, non lontano da Bangkok, dove i due amici sono stati venduti come schiavi. All’inizio aveva cercato di porre resistenza, ma era stato prontamente picchiato fino a fargli perdere i sensi. Al suo risveglio si è trovato su un peschereccio in mezzo al mare. Da quel momento, la sua vita non gli apparteneva più. I suoi pasti e le sue ore di sonno, quando venivano concesse, erano decisioni che spettavano ai suoi padroni. Per lui solo lavoro, senza pause. Ko Lin è riuscito a liberarsi dalla schiavitù grazie ad un raid della polizia che gli ha permesso di tornare salvo a casa.
Quando la fame e la miseria governano la vita delle persone, per i trafficanti umani è facile trovare nuove vittime. Per questo Ma Moe aveva accettato di lasciare la sua famiglia e la sua città per andare a lavorare come domestica in Cina. Avrebbe potuto guadagnare tra gli 80 e i 150 euro al mese. Ma quell’amico di cui si era fidata, che le aveva offerto quell’opportunità, era la stessa persona che l’ha poi drogata durante il viaggio. Al suo risveglio Ma Moe non aveva idea di dove fosse. Non l’ha mai saputo. Da quel giorno non era più una persona ma un oggetto, lasciato per mesi in vendita come ‘moglie’ sul mercato nero. E sempre come fosse un oggetto, il suo padrone se ne era liberato lasciandola per strada quando aveva scoperto che era sieropositiva. Da lei non poteva avere figli e dunque era inutile. Senza più niente, Ma Moe voleva solo lasciarsi morire. Per sua fortuna un giovane di passaggio chiamò un numero verde per le vittime del traffico di esseri umani.
Le storie di Ko Lin e Ma Moe risalgono al 2012. Testimonianze dello scorso anno che dimostrano come il traffico di uomini e donne nel mondo non sia il ricordo di un triste capitolo della storia. Il numero di schiavi è addirittura di gran lunga aumentato rispetto a 150 anni fa. Secondo i dati dell’Ilo, Organizzazione Internazionale del Lavoro, attualmente le persone costrette in schiavitù sono circa 21 milioni. È la cifra storicamente più alta. Si tratta soprattutto di schiavi per debiti, persone costrette a lavorare per misere paghe per la restituzione di un prestito. È il caso dei migliaia di bambini afgani che ogni giorno devono lavorare nelle fornaci per ripagare i debiti della propria famiglia. Nelle regioni militarizzate poi e nei Paesi teatro di conflitti è molto frequente che gli individui più deboli o svantaggiati, quali i rifugiati o gli appartenenti a minoranze etniche, finiscano per essere costretti a lavorare o al reclutamento forzato.