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    Gli angeli della Siria

    Sono medici, infermieri, giornalisti che ogni giorno attraversano il confine turco per portare di là farmaci e di qua notizie, rischiando la vita

    Di Asmae Dachan
    Pubblicato il 5 Dic. 2016 alle 11:59 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 17:58

    Si muovono cercando di non lasciare tracce e si guardano spesso le spalle. La paura è quella di essere intercettati, seguiti e poi uccisi: come è già accaduto al giornalista Naji Jerf nella città turca di Gazientep e al suo collega Ahmed Abdelqader, sopravvissuto a un agguato a Urfa.

    Sono medici e giornalisti siriani “frontalieri”, giovani donne e uomini che attraversano continuamente il confine turco e rientrano poi in Siria. Sono “contrabbandieri” che non si fanno pagare, ma che spesso pagano anche con la vita per aver deciso di trasportare farmaci e materiale sanitario. Sono “messaggeri” che divulgano notizie e che procurano ai colleghi all’interno delle città siriane fotocamere di ultima generazione e persino droni.

    Lo fanno perché la Siria sta attraversando una gravissima crisi medico-sanitaria e ha bisogno di aiuti dall’esterno. Lo fanno perché la Siria non vuole morire nel silenzio del blackout mediatico e vuole far arrivare al mondo le voci e le immagini del massacro in atto. Soccorrere e informare diventano i due binari paralleli su cui si muove il presente e il futuro della resilienza siriana.

    A Reyhanli, cittadina turca in cui ormai due terzi degli abitanti sono rifugiati siriani, incontriamo un gruppo di operatori sanitari appena usciti dalla Siria. Gli accordi sono chiari, nomi di fantasia e niente immagini per tutelare la loro incolumità e quella della rete di collaboratori con cui lavorano.

    L’appuntamento è in uno degli ospedali siriani di frontiera costruiti in territorio turco e sostenuti da diversi organismi medici internazionali. Un ospedale che ho visitato più volte dal 2013, anno in cui è stato costruito. Insieme con me c’è Radwan, un collega siriano con cui ho lavorato per diverso tempo per creare questa rete di contatti. Da ragazzo sognava di fare l’anchorman in giacca e cravatta e di diventare famoso; oggi si trova a raccontare di stragi, a filmare cadaveri e a intervistare medici e soccorritori che denunciano la gravissima crisi umanitaria in Siria. “Niente cravatte, ho solo scarpe da ginnastica che mi aiutano a correre quando devo scappare”, racconta ironico.

    La fila dei degenti inizia da fuori. Donne con bambini in braccio, giovani mutilati, anziani. La capo infermiera, Amira, mi accoglie col sorriso. Ci siamo viste pochi mesi fa e si ricorda di me. In quel contesto desolante sembra quasi stupire quel piccolo gesto di umanità. Amira e Radwan si salutano, senza darsi la mano.

    L’infermiera mi racconta delle sue allieve e con fierezza mi dice che già sei delle ragazze che si sono formate al suo fianco si sono diplomate e ora operano in Siria. Abitavano tutte nel campo profughi di Altinoz e per riscattare la propria vita hanno deciso di seguire un corso intensivo di formazione infermieristica rivolto alle profughe siriane. Tra di loro c’è Maha, venticinque anni, originaria di Jisr al-Shoghour. È appena rientrata dalla Siria insieme al marito, anch’egli infermiere.

    “Sono ormai due anni che attraversiamo la frontiera per portare aiuti agli ospedali da campo”, racconta. “Carichiamo quello che possiamo e poi rientriamo in Siria. Da quando mi sono diplomata non mi fermo mai per più di tre giorni in Turchia. Comunichiamo via WhatsApp con i colleghi oltre frontiera e facciamo richieste specifiche in base a quelle che sono le emergenze, anche se ormai serve di tutto”.

    Maha non vuole raccontare nulla di specifico sulle vie attraverso le quali entrano ed escono. “Ultimamente abbiamo richiesto soprattutto farmaci anti-ustioni e respiratori per far fronte alla nuova ondata di bombardamenti al cloro. Abbiamo anche introdotto sacche di sangue. Ogni volta sappiamo di correre il rischio di essere individuati dai cecchini o di essere fermati a un posto di blocco quando rientriamo in Siria, ma è la vita che abbiamo scelto di fare. Il nostro contributo alla causa siriana”.

    Mentre aspettiamo il chirurgo che viaggia insieme a Maha da e per Aleppo, facciamo un giro tra le stanze. I degenti sono divisi in malati e in feriti di guerra. Tra di loro ci sono bambini ustionati e mutilati, giovani combattenti rimasti paralizzati dai proiettili sparati alla schiena come punizione per le loro diserzioni dalle fila di Daesh (acronimo arabo che indica l’Isis, ndr), donne amputate dopo essere state schiacciate dal peso delle macerie delle loro stesse case.

    C’è un intero popolo sopravvissuto agli orrori della guerra, ma che sembra essere morto dentro. Gli sguardi sono segnati e raccontano più di mille parole la sofferenza e il dolore di chi sopravvive. “Almeno loro qui possono essere curati”, dice Radwan mostrandomi il suo cellulare. Gli sono appena arrivati messaggi su un gruppo WhatsApp che riunisce medici e giornalisti dentro e fuori Aleppo.

    Mi fa leggere il racconto di uno dei medici “Oggi hanno portato da noi decine di feriti e intossicati. Tra di loro c’era anche un uomo che ho riconosciuto, un mio insegnante al liceo. Ho potuto solo stringergli la mano e accompagnarlo mentre spirava”.

    Insieme alle testimonianze vengono caricate e condivise foto e video. “Alcuni colleghi che sono sul gruppo con noi prendono il materiale e ne realizzano articoli, ma i media main stream sono ancora riottosi ad attingere da questo tipo di fonti, nonostante possiamo garantire loro dirette Skype con questi ospedali e informazioni di prima mano, autentiche”.

    Finalmente arriva il medico, Abdullah. Ci dedica pochi minuti perché deve ripartire. È in ansia per l’ultima feroce ondata di attacchi sugli ospedali di Aleppo, che ha reso inagibili e fuori uso tutte le strutture.

    “Molti medici siriani se ne sono andati all’estero per mettere in salvo se stessi e le proprie famiglie. Noi abbiamo deciso di restare perché abbiamo prestato il giuramento di Ippocrate. Vorrei chiedere a quei colleghi di tornare in Siria e pensare a chi ha bisogno del loro lavoro”. Il dottor Abdullah spiega che non si tratta di una corsa al martirio, ma del rispetto di un dovere morale, deontologico e religioso. “Siamo l’unica ancora di salvezza per migliaia di civili lasciati soli da tutti. In Siria operiamo spesso in ospedali da campo che abbiamo allestito per tamponare le emergenze, ma ci mancano persino le garze e gli antibiotici. Qui al confine incontriamo colleghi che vengono da ogni parte del mondo e che operano gratuitamente i feriti che, con mille difficoltà, a volte riusciamo a fare uscire”.

    Il medico ci congeda lanciando un appello: “Non chiediamo ai medici stranieri di entrare in Siria, è nostro dovere come siriani farlo. A loro chiediamo di mobilitarsi in nome di quello stesso giuramento che abbiamo fatto tutti. Di chiedere la fine dei bombardamenti sugli ospedali e i convogli umanitari. Non si tratta di una presa di posizione politica, ma di un moto di coscienza, di un dovere morale ed etico”.

    Al confine incontro Alya, una ginecologa, e Mazen, un giornalista, rientrati di recente da viaggio ad Aleppo. Ci parlano di Firas, un giovane medico rimasto ucciso mentre faceva rientro ad Aleppo. “Io dovevo andare a ritirare un drone con telecamera”, racconta Mazen, “e Firas doveva ritirare dei farmaci oncologici che aspettavano da settimane. Per me il drone era importante per riuscire a fare riprese dall’alto e arrivare anche dove non è possibile essere fisicamente. Per lui quelle medicine erano l’ultima speranza per una paziente gravemente malata”.

    Sospira e si tira indietro i capelli che gli cadono sulla fronte. “Non è vero che ci si fa l’abitudine alla clandestinità. Muoversi come se fossimo dei ladri o dei criminali e sentirci fuori legge non è piacevole. In una società civile chi dà voce agli oppressi come facciamo noi giornalisti e chi soccorre vite umane come fanno i medici, dovrebbe essere considerato una persona nobile d’animo. Nella Siria di al Assad non è così”, dice desolato.

    “Eravamo praticamente arrivati”, prosegue Alya. “Quando ci siamo trovati a circa 150 metri da un posto di blocco. Ci hanno intimato di fermarci, ma noi abbiamo cercato di nasconderci in una stradina secondaria. Io sono riuscita a salvarmi insieme a Mazen, Firas invece è stato raggiunto da una raffica che gli è stata fatale. Abbiamo cercato di avvicinarci a lui, ma era impossibile farlo senza essere colpiti. Abbiamo corso più che potevamo”. Insieme a Firas, conclude Alya, quegli spari hanno condannato a morte anche la malata che aspettava quei farmaci costosi e sempre più difficili da trovare.

    Lasciamo il sud della Turchia per dirigerci a Istanbul, città diventata punto di approdo per i sopravvissuti siriani del movimento non violento che cercano di aiutare la causa siriana, nascosti in questa immensa metropoli. Alcuni sono stati nelle carceri delle torture come Tadmor e Sednaya, altri sono fuggiti per scampare ad arresti ed esecuzioni.

    Ora molti di loro sono impegnati nella raccolta e documentazione delle violazioni dei diritti umani e danno sostegno e supporto agli attivisti rimasti all’interno della Siria, ma anche ai giornalisti e reporter che inviano ogni giorno video, foto, report. Incontrarli non è semplice. Si sentono minacciati e hanno paura degli omicidi mirati.

    Nelle città di confine, Killis e Gazientep in particolare, diversi giornalisti e attivisti siriani sono già stati uccisi. Gli episodi sono stati classificati come crimini di Daesh, ma i giovani siriani sentono di avere addosso il fiato dei Servizi segreti del regime.

    Dopo aver cambiato tre volte luogo dell’appuntamento incontro finalmente Emran. È un giovane alto, con i capelli lunghi e gli occhi chiari e guardandolo in viso si contano diverse cicatrici. Prima dell’inizio delle proteste ha lavorato per diversi quotidiani in Siria, l’ultimo dei quali era Baladna. Racconta delle difficoltà di fare onestamente il suo lavoro, di tutte le volte che è stato censurato e picchiato per aver osato scrivere qualcosa che non andavo scritto, come quando ha pubblicato un’inchiesta sul petrolio siriano e si è visto chiudere la testata.

    Emran non ha mai preso parte ai cortei o alle manifestazioni e per questo era un insospettabile, ma in realtà sin dai primi mesi della rivolta si è attivato per formare i giovani cosiddetti media attivisti e citizen reporter. “Ci riunivamo segretamente e trasmettevo loro le tecniche delle riprese e del montaggio, l’attacco di un articolo, la verifica delle fonti. Era fondamentale che il loro lavoro diventasse professionale perché potessero essere un giorno un riferimento per i media stranieri. Così è stato, perché quando i grandi network, comprese Al Jazeera e Reuters, non hanno più potuto mandare i propri inviati a causa dei rischi, si sono rivolti ai nuovi giornalisti siriani che sono diventati loro corrispondenti e sono loro a morire sul campo”.

    Secondo il Syrian Network for Human Rights sono oltre 400 i giornalisti uccisi in Siria dal marzo 2011 allo stesso mese del 2015 e oltre mille quelli arrestati. Perdo il conto delle sigarette che Emran sta fumando. È nervoso, deluso e adirato, impreca spesso e poi si scusa di averlo fatto.

    “Il 21 agosto del 2013 mi trovavo a Ghouta subito dopo i bombardamenti con le armi chimiche. Ero giunto sul posto insieme ad alcuni medici, intervenuti in aiuto ai colleghi del posto. Sono stato colto in flagrante mentre facevo riprese. Mi hanno portato in un ramo dei Servizi segreti, la divisione quaranta di Rukn Eddine e mi hanno torturato, arrivando persino a tagliarmi il frenulo linguale. Sono stato salvato dalla telefonata di una mia ex direttrice con cui ero molto amico, che ha dichiarato che ero a Ghouta di passaggio e che lei mi aveva inviato in un villaggio vicino per un servizio. Lo ha fatto perché in passato avevo salvato la vita a suo fratello. Ho saputo che ha pagato una somma importante a un funzionario corrotto. Credevo che fosse finita, invece un amico che lavora nell’esercito mi ha telefonato un giorno da un numero sconosciuto dicendomi che dovevo lasciare subito la Siria perché era stata scoperta la mia attività con i media attivisti e rischiavo la vita. Ho lasciato la Siria e volevo imbarcarmi per l’Europa, ma non l’ho fatto. Non è giusto che siamo noi ad andare via. Per il regime sono un latitante, ma quando mi guardo allo specchio vedo un siriano che sta combattendo la sua guerra senza armi, usando le parole, aiutando a salvare vite umane”.

    *L’articolo di Asmae Dachan, “Gli angeli della Siria”, è stato coprodotto con l’Espresso e pubblicato da pagina 70 a 75 sul numero 49 del 4 dicembre 2016.


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