“Della Palestina so tutto, ma non l’ho mai vista e, forse, non la vedrò mai. È strano essere parte di qualcosa che non puoi toccare”. Yafa racconta la sua storia a telefono con la voce interrotta da problemi di connessione, frequenti nel campo profughi in cui si trova.
Palestinese nata in Libano, oggi vive e studia in Italia ma, quando può, torna dai suoi familiari nel campo profughi palestinese di Borj Albaranejah, alla periferia di Beirut, dove ha vissuto finché non ha ottenuto una borsa di studio per il nostro Paese.
Ufficialmente apolide (i rifugiati palestinesi in Libano non hanno diritto alla cittadinanza), la sua origine è intimamente legata al nome che porta, il nome di una città che, però, non ha mai visto.
“Mio padre è arrivato in Libano come rifugiato, dopo esser fuggito da Giaffa, Yafa, che oggi è in Israele. Come a tutti gli esuli palestinesi, compresi i loro discendenti, gli è negato il diritto al ritorno. Quando i miei colleghi italiani apprendono che sono palestinese, mi chiedono ‘come si vive laggiù in Palestina?’. Non so come spiegargli che sì, sono palestinese, ma in Palestina non posso tornarci”.
La sua è solo un esempio delle diverse storie che chi è un palestinese che vive altrove si trova a raccontare quando parla delle proprie origini. Storie diverse che in comune hanno uno stretto legame tra i verbi conoscere e immaginare: i palestinesi di prima generazione non possono che conoscere una Palestina fatta di occupazione, quelli di seconda (o terza) invece si ritrovano a vivere la Palestina attraverso i racconti dei loro genitori o dei loro nonni.
Ascoltano le storie di una “terra di latte e miele”, di case distrutte da bulldozer di un esercito nemico, di città o villaggi che sono stati chiamati con un altro nome, non più arabo ma ebraico, o di luoghi che non esistono più sulla cartina geografica, ormai completamente rasi al suolo.
Ricordare attraverso le storie. Ricordare attraverso l’immaginazione. Definire un’origine comune dei palestinesi che vivono attualmente in Italia è impossibile.
Alcuni sono discendenti di quei palestinesi che, a seguito degli eventi del 1948 e del 1966 (guerra dei sei giorni), si sono ritrovati ad essere profughi e poi ad arrivare, in un modo o nell’altro, in Italia. Altri sono palestinesi di prima generazione: anche loro sono profughi o sono semplicemente arrivati in Italia per scelta, per lavoro o studio.
A rendere il tutto più difficile c’è, oltre a quello cronologico e generazionale, anche l’elemento geografico: alcuni palestinesi sono originari della striscia di Gaza, altri della Cisgiordania, ossia quella parte di Palestina occupata militarmente dalle forze israeliane; altri ancora, nati nell’attuale territorio israeliano, sono cittadini di Israele ma, spesso, non si considerano parte dello stato ebraico.
Nell’identificarli, a volte, gli istituti di ricerca hanno un approccio burocratico ignaro dell’elemento identitario e delle sfumature storiche che ne hanno diversificato la provenienza.
Nella ricostruzione delle proprie origini, qualcuno si accontenta delle parole, del dialetto palestinese parlato ancora in famiglia, delle chiavi che hanno ereditato: le chiavi delle abitazioni che i palestinesi hanno dovuto abbandonare e che si tramandano di generazione in generazione come simbolo di un ritorno al quale non intendono rinunciare.
Qualcun altro, però, non abbandona il sogno di vedere con i propri occhi il luogo di nascita dei propri genitori o nonni. Ma non sempre questo è possibile.
“Quando ho compiuto diciott’anni ho deciso di vedere Nablus, la città dov’è nato mio nonno”. Karim oggi di anni ne ha trentaquattro. Nato in Italia da madre italiana e padre palestinese, racconta con orgoglio di come suo nonno sia stato il primo palestinese ad arrivare in Italia con una borsa di studio negli anni ‘30, prima della guerra.
“Mio nonno e mio padre hanno vissuto tra Palestina, Italia e Giordania fino agli anni ‘60. Poi, con la guerra dei sei giorni, Israele ha occupato militarmente la Cisgiordania e loro non sono più potuti tornare a casa. Quando, decenni e decenni dopo, ho provato a entrare in Cisgiordania per visitare la città di mio nonno, i militari israeliani non mi hanno lasciato passare”.
“Se hai un nome palestinese e non hai più familiari che giustifichino la tua presenza in quei luoghi, è molto difficile entrare in Israele o Cisgiordania, per non parlare poi di Gaza, dove è praticamente impossibile. Tutto dipende dalla discrezionalità dei militari che sono alla frontiera. Nel mio caso, pur avendo passaporto italiano, sono stato fermato e, dopo le mie proteste, sono stato addirittura ‘multato’ con un ban, ossia un divieto di tornare in quei luoghi per più di dieci anni”.
Il risultato di questi impedimenti è una Palestina fatta di memorie, che deve essere spesso ricostruita attraverso quella che Karim definisce una resistenza culturale.
In Italia, molte sono le associazioni o i centri culturali che fanno proprio della cultura l’elemento legittimante di uno Stato non ancora formalmente riconosciuto e coinvolto in uno dei conflitti più longevi e complessi della storia.
Ma, come afferma lo stesso Karim, a volte è nemmeno la cultura a essere osteggiata, quanto il concetto stesso di Palestina. “Riceviamo critiche anche solo se, come palestinesi, siamo in corteo con i partigiani dell’ANPI il 25 aprile”.
Un esempio di resistenza culturale è il centro culturale Handala Alì a Napoli, fondato lì dove, fino a un anno fa, c’era la bottega di Alì Oraney, un palestinese morto di Covid lo scorso settembre, dopo quasi quarant’anni passati in Italia e una cittadinanza mai ottenuta.
Tra i componenti della comunità palestinese locale che frequentano questo posto c’è anche R., palestinese che vive in Italia da quindici anni. È nata in Israele, ha la cittadinanza israeliana e spera di ottenere presto quella italiana.
“Posso tornare nei luoghi dove vivevano i miei antenati quando voglio eppure, paradossalmente, non posso. Mio nonno veniva da un villaggio che si chiamava Suffuriya. Secondo alcune tradizioni la Madonna veniva proprio da lì e si recava a Nazareth solo per prendere l’acqua al pozzo. Il villaggio, però, non esiste più. È stato sgomberato nel 1948 e, successivamente, le case sono state distrutte. Al suo posto, lì vicino, è stato fondato un villaggio ebraico”.
Tra i libri che sono nella sua libreria, ce n’è uno che consiglia spesso a chi vuole conoscere la situazione israelo-palestinese. Si chiama Primavera Breve, di Francesco Migliaccio. Ce lo presta, con la promessa di riportarglielo.
In un passo del libro, relativo proprio al cancellato villaggio di Suffuriya, c’è una frase che R. ha sottolineato a matita. “La cultura ebraica si fonda sul ricordo, penso. E allora perché lo stato ebraico opera la cancellazione, perché diviene fautore di oblio?”.
Poco distante, nel quartiere napoletano di Barra, un nuovo murales ricopre l’intera facciata di un complesso residenziale popolare. Opera dell’artista Jorit, il murales raffigura una serratura: in basso a destra, un giovane ragazzo tiene tra le mani una chiave. È dedicato alla comunità palestinese, come l’artista ha dichiarato sul suo profilo Instagram, accompagnando l’immagine a una citazione di Nelson Mandela: “I palestinesi non lottano per uno stato, ma per la libertà, l’indipendenza e l’uguaglianza, proprio come noi sudafricani”.
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