Giornata mondiale contro crimini verso giornalisti
Jamal Khashoggi, caporedattore di Al Arab News Channel, editore di Al Watan, piattaforma diventata simbolo dei sauditi progressisti, aveva scritto articoli molto critici sulla monarchia saudita.
Si era dichiaratamente opposto all’intervento in Yemen. Era stato molto critico verso il salafismo islamico. In contrasto con la monarchia saudita, si era imposto l’auto esilio dopo essere stato “bannato” dal profilo Twitter dal regime.
Il 2 ottobre 2018 è stato barbaramente ucciso in Turchia, fatto letteralmente a pezzi all’interno del consolato saudita dove si era recato per ritirare dei documenti.
È l’ultimo in ordine cronologico degli atti violenti perpetrati verso i giornalisti e la libertà di stampa in tutto il mondo.
Dal 2013 l’ONU ha indetto per il 2 novembre la giornata mondiale per porre fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti, in memoria di Claude Verlon e Ghislaine Dupont, di Radio France Internationale, uccisi in Mali nel 2012 da un gruppo ribelle locale.
Quest’anno l’evento è di importanza particolare dopo quanto accaduto il 16 ottobre a Malta, dove è stata uccisa da una bomba Daphne Caruana Galizia, reporter maltese componente del team internazionale di giornalisti di inchiesta vincitore del Pulitzer 2017 con le rivelazioni sui Panama Papers.
Eritrea e Corea del Nord costituiscono oggi, rispettivamente, il primo e il secondo paese che esercitano la censura più forte al mondo, secondo una lista messa a punto dal Comitato per la protezione dei giornalisti.
La lista si basa su una ricerca i cui principali parametri vertono sull’adozione di tattiche che vanno dalle restrizioni di accesso ad internet e dall’utilizzo di leggi repressive, fino dalla persecuzione e all’incarcerazione di reporters e giornalisti.
In Eritrea, nel 2001, il presidente Issayas Afeworki diffuse tramite la radio di stato la seguente dichiarazione: “A partire da oggi, 18 settembre 2001, il governo ha ordinato a tutti i media privati di fermare le pubblicazioni”.
Degli undici giornalisti arrestati in quell’occasione, 7 avrebbero trovato la morte durante la loro detenzione.
Secondo Amnesty International, l’Eritrea conta oggi migliaia di persone tra prigionieri politici, prigionieri d’opinione e giornalisti, la maggior parte delle quali detenuta senza un processo regolare.
Nel 2017, la Corte centrale della Corea del Nord annuncia di avere emesso una condanna a morte in contumacia, senza possibilità d’appello, per i quattro giornalisti sudcoreani Son Hyo-rim, Yang Ji-ho, Kim Jae-ho e Pang Sang-hun.
La condanna è dovuta alle critiche positive espresse dai giornalisti su un libro ritenuto offensivo dal regime, il North Corea Confidential.
Nel 2018 l’Arabia Saudita occupa il 169 esimo posto su 180 nella classifica mondiale per la libertà di stampa.
Da quando Mohammed bin Salman è stato designato come principe ereditario al trono saudita, il numero di giornalisti e bloggers finiti dietro le sbarre è raddoppiato. Attualmente si ritiene siano 28.
A febbraio del 2018, il giornalista Saleh Al Shehu è stato condannato a 5 anni di prigione per “oltraggio alla Corte reale”, per avere denunciato il compiacimento per corruzione e nepotismo all’interno della monarchia.
Sempre in carcere c’è Eman El Nafjan, blogger saudita arrestata per avere trattato argomenti sensibili come i diritti delle donne.
Spesso, vengono utilizzati pesanti capi d’accusa per giustificare l’incarcerazione dei giornalisti.
In Cina, sui 44 giornalisti detenuti ed incarcerati, 29 sono accusati di “crimine contro lo Stato”.
Il giornalista-cittadino Ilham Tohti è stato condannato all’ergastolo con l’accusa di “separatismo e secessionismo”.
Nell’intento di stemperare il forte disaccordo politico della sua comunità, la minoranza uigura, con il governo cinese, Tohti aveva diretto un sito d’informazioni in cui invitava al dialogo e alla propensione per una risoluzione pacifica.
In Vietnam, numerosi bloggers sono stati imprigionati con l’accusa di “abuso di libertà democratica”.
Un esempio tra molti è il caso di Le Anh Hung, arrestato a luglio 2018 per avere pubblicato una lettera aperta sui social media.
La lettera riportava forti critiche verso gli esponenti del Partito comunista vietnamita riguardo alle loro politiche economiche.
La Birmania strumentalizza la propria legge sui “segreti di Stato” del 1923 per vietare reportage critici sul proprio esercito.
Il caso più recente e rappresentativo è senza dubbio quello di Wa Lone e di Kyaw Sue Oo, due giornalisti arrestati e condannati a 7 anni di carcere per avere investigato sul massacro della minoranza musulmana dei Rohingya perpetrato dall’esercito birmano.
In Azerbaijan, dove i media tradizionali indipendenti sono pressappoco inesistenti, le leggi sulla “diffamazione criminale” sono state estese fino al punto di includere media e social, minacciando chi non dovesse rispettare le limitazioni imposte dallo stato con ritorsioni che possono andare fino ai sei mesi di reclusione.
La repressione condotta dal paese contro giornalisti e difensori dei diritti umani ha numerosi volti, tra cui quello di Afgan Mukhtarli, giornalista azran arrestato e detenuto nelle carceri del paese dal 2017, o quello del blogger Mehman Housseïnov, condannato a 2 anni di prigione, o ancora quello di Aziz Oroujov, vittima di una condanna di ben 6 anni di detenzione.
E la Russia non è da meno. Alcune leggi promulgate da Putin producono un effetto analogo: diventano reato l’“offesa ai sentimenti dei credenti”, “l’incitamento al separatismo”, e viene amplificata la nozione di “alto tradimento”.
Restrizioni e concetti ritenuti troppo “vaghi” da diversi osservatori internazionali, come Human Rights Watch, che sottolinea quanto il carattere “eccessivamente generico” di queste leggi permetta la loro applicazione in maniera troppo selettiva ed arbitraria.
Uno tra gli esempi più lampanti di detenzione a carattere “arbitrario” in Russia riguarda senz’altro il giornalista ucraino Roman Soutchenko, condannato a giugno 2018 a 12 anni di carcere.
È stato ritenuto dalle autorità russe colpevole di spionaggio, al termine di una procedura istruttoria tenuta sotto il sigillo del “segreto”, che mantiene nascoste le motivazioni della condanna.
Da sempre il regime ha cercato di soffocare i pensieri e le parole non compiacenti al suo operato. Anna Politkovskaja, giornalista e attivista per i diritti umani russa, assassinata a colpi di pistola il 7 ottobre 2006 a Mosca, è stata spesso definita “la donna sola”.
La Politkovskaja si era contraddistinta per avere scritto e firmato più di duemila articoli sulla guerra in Cecenia e sulle stragi di Dubrovka e di Beslan.
La sua voce aveva risuonato in tutto il mondo, dov’era amata ed apprezzata per il suo impavido impegno a favore della verità e dei diritti umani.
La sua morte, per molti, spazzò via l’ultima speranza che la Russia potesse spianare la strada verso un nuovo processo di democratizzazione e di rispetto dei diritti umani.
Non possiamo non accennare alla Turchia – 157 esima posizione nella classifica mondiale del 2018 – dove dallo scorso marzo è stata ufficialmente segnata la fine del pluralismo e della libera stampa, con l’acquisizione dei media di opposizione Dogan da parte del gruppo Demiroren, una realtà editoriale storicamente pro-governativa e molto vicina ad Erdogan.
Questa transazione del valore di 1,25 miliardi di dollari spegne definitivamente l’ultima voce “di dissenso” turca, simboleggiata dal giornale Hurriyat, che viene ceduto assieme ai giornali Posta e Fanatik, e ai canali tv Cnn Turk e Kanal D, conferendo ad Erdogan il controllo quasi assoluto dei media del paese.
Non possiamo nemmeno non nominare l’Egitto e il caso Giulio Regeni, studente universitario dottorando italiano che conduceva una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani, barbaramente torturato ed assassinato a febbraio del 2016.
Sulla sua morte non è ancora stata fatta giustizia, e il silenzio assordante delle autorità egiziane per insabbiare l’accaduto disegna un paese in totale contrasto con i principi della libertà di stampa e di espressione.
Ma accantonando i paesi tradizionalmente autoritari in materia di libertà di stampa – che versano in atteggiamenti che spesso rasentano la “media-fobia” – la violenza nei confronti dei giornalisti è stata ormai legittimata anche in Europa e negli Stati Uniti.
Gli USA di Trump hanno perso nel 2018 due posizioni nella classifica mondiale: con il suo media-bashing, Trump non esita ad attaccare pubblicamente i giornalisti chiamandoli “nemici del popolo americano”, e a parlare di fake news ogni qualvolta una notizia non dovesse andare nel senso da lui desiderato.
Oggi, con l’avvento di internet assistiamo ad una maggiore capacità di diffondere informazioni, articoli, notizie e fatti in ogni angolo del mondo. Contemporaneamente, governi autoritari e regimi cercano ogni strada per controllare una categoria scomoda e spesso ritenuta avversa, com’è considerata quella dei giornalisti.
Dalle incarcerazioni e gli omicidi di stato si passa facilmente all’azione denigratoria e della macchina del fango com’è successo a Gary Webb, il giornalista statunitense che nei suoi articoli aveva divulgato una connessione tra i servizi segreti del suo paese e i cartelli del narcotraffico nicaraguensi, e che aveva subìto un linciaggio pubblico perfettamente organizzato e traghettato, fino al drammatico epilogo della sua morte “per suicidio con due proiettili in testa”, nel 2004.
Quanto al vecchio continente, oltre all’omicidio già accennato della reporter maltese Daphne Caruana Galizia, il pericoloso clima in cui versa la categoria dei giornalisti ha subìto tra il 2017 e il 2018 un parossistico aggravamento.
Si sono manifestate esternazioni di prepotenza e minaccia da parte di esponenti politici, come l’episodio del presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman, che si è presentato ad una conferenza stampa con in mano un kalashnikov giocattolo che riportava la scritta “giornalisti”.
Ma l’esasperazione di questo clima può sfociare in episodi ancora più drammatici, come nel caso della Slovacchia, crollata di dieci posizioni quest’anno in classifica, dove avvenne l’assassinio di un giornalista investigativo di 27 anni, Jan Kuciak.
Il giovane reporter si era macchiato della colpa di avere investigato su corruzione, mafia e frode fiscale, e di avere concentrato le sue ricerche su Ladislav Basternak, proprietario di un complesso immobiliare nel quale risiede il primo ministro del paese, Robert Fico.
L’Italia, in 46esima posizione nella classifica mondiale di quest’anno, affronta altre tipologie di limitazioni della libertà di stampa.
Sono quasi venti i giornalisti che vivono sotto scorta permanente o sottoposti ad altre misure di protezione. Costretti ad operare con cautela, sono costantemente attanagliati da minacce, intimidazioni, violenze e abusi di diritto da parte di organizzazioni criminali di stampo mafioso.
Il censimento del 2016 porta a 512 il numero di casi di giornalisti e blogger vittime di aggressioni fisiche, avvertimenti, querele e altre azioni giudiziarie. Per quanto riguarda invece i casi irrisolti ricordiamo quello dell’omicidio di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 assassinata assieme all’operatore tv Miran Hrovatin il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, in Somalia.
Nonostante la resilienza di molti giornalisti, che continuano a pubblicare le loro indagini malgrado le forti intimidazioni, la categoria si dice oggi non poco preoccupata dal clima ostile che regna nei suoi confronti. Clima rafforzato ulteriormente da certe esternazioni di alcuni esponenti politici, che non hanno esitato ad infangare verbalmente l’immagine della categoria, o a comunicare pubblicamente l’identità di giornalisti ritenuti “scomodi”.
“La libertà d’espressione è alla base dei diritti umani, è la radice della natura umana e la madre della verità. Sopprimere la libertà di parola significa insultare i diritti umani, soffocare la natura dell’uomo e reprimere la verità.” LIU XIAOBO.
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