Quando le rivolte in Siria sono iniziate nella primavera 2011, nessuno pensava che un paese relativamente stabile e controllato da anni dal regime degli Assad potesse trasformarsi nel teatro di una guerra civile con oltre 300mila vittime e 7 milioni di profughi.
I 17 milioni di Siriani (o almeno quelli che non si sono riversati in Turchia, Libano ed Europa) si trovano nel mezzo di una guerra tra molteplici fazioni ormai da oltre quattro anni.
Al nord le milizie popolari dei curdi del Rojava si sono ritagliate, tra le case distrutte di Kobane e a nord di Sinjar in Iraq, una striscia dell’agognato Kurdistan.
Nella fascia costiera ed attorno alle maggiori città il governo di Damasco ha ancora il controllo della situazione. Ad Aleppo e in alcuni quartieri di Damasco ogni giorno le truppe del regime combattono contro i ribelli, mentre le varie fazioni ribelli sono in lotta tra loro.
Nel nord, intorno a Idlip, decine di gruppi ribelli e gli islamisti di Al Nusra si contendono un territorio densamente popolato e incastonato tra il confine turco, le roccaforti del regime e i territori controllati dai curdi e dallo Stato Islamico.
Le bandiere nere del leader dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi sventolano su tutto l’est del paese, nonostante negli ultimi mesi siano state messe sotto pressione sia dai curdi sia dall’esercito del presidente Bashar al-Assad.
Nel teatro della tragedia siriana si sono poi avventurati, o sono stati tirati per la giacchetta, una miriade di attori e comparse esterni: i miliziani iraniani delle forze Quds, gli Hezbollah libanesi e gli aerei russi sostengono apertamente il regime di Assad, mentre migliaia di combattenti stranieri cresciuti nelle città europee rinforzano le linee dello stato Islamico.
Una variegata coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti che include anche Francia, Gran Bretagna e Turchia è entrata nella partita dall’area, bombardando le postazioni del sedicente Stato islamico, ma apparentemente senza inviare truppe di terra.
Nel caos siriano ogni giocatore, in particolare quelli esterni, ha doppie e triple agende. I Turchi sono nella coalizione per impedire il rafforzamento dei curdi e neanche troppo sottobanco permettono l’invio di uomini e armi all’Isis in chiave anti-curda, in cambio del petrolio dello Stato Islamico.
La Russia di Vladimir Putin ha la necessità di preservare l’accesso al Mediterraneo tramite la base di Tartous e di mantenere in vita uno dei pochi alleati russi in Medio Oriente, con cui ha fatto affari negli anni passati.
Il regime siriano tenta di eliminare ogni alternativa credibile di governo per una Siria post-Assad, quindi tende a colpire i pochi ribelli laici o moderati e a cercare lo stallo con il sedicente Stato islamico e gli altri gruppi islamisti.
Gli Stati uniti devono chiudere un occhio nei riguardi delle politiche filo-Isis di Erdogan ma vorrebbero rovesciare Assad in chiave anti-russa. D’altra parte gran parte dei fondi che arrivano al sedicente Stato islamico vengono da Stati membri della coalizione (in primis Qatar, Emirati Arabi e Arabia Saudita), stretti alleati di Washington ma fortemente filo-sunniti (Bashar al-Assad è sciita).
L’ambiguità è evidente sia per il debito che l’Isis ha con le dottrine wahabite di matrice saudita, sia per l’analogo debito che i sauditi hanno con il sedicente Stato islamico nel limitare e impegnare gli sciiti in Siria e Iraq, impedendo la formazione di un Iraq a forte trazione sciita.
Ma Assad deve sempre di più la sua permanenza al potere in quello che gli rimane del territorio siriano alle milizie iraniane e di hezbollah: ormai il grosso della sua forza militare gli è garantito da loro, e questo ha indotto gli Stati sunniti del Golfo ad intervenire sostenendo i gruppi dell’opposizione sunnita, Isis incluso.
Per gli Stati Uniti, oggi più che mai lasciare Assad al potere significherebbe avere una Siria filo-russa e de facto governata dagli interessi iraniani.
La mancanza di credibili alternative ad Assad per una Siria pacificata implica che da un lato il sedicente Stato islamico sia utile a impedire una vittoria completa di Assad e dei suoi sostenitori sciiti, dall’altro che le altre milizie ribelli siano troppo deboli per avere un vero ruolo nella definizione dei nuovi equilibri.
I curdi d’altra parte, non hanno nessun interesse a proseguire la lotta fuori dai loro territori: il loro non-intervento è la miglior garanzia di autonomia o indipendenza future, entrambe osteggiate dalla Turchia che teme per le rivolte filo-curde nell’est dell’Anatolia.
(Una cartina della Siria e dell’Iraq con in rosso le aree perdute dall’Isis nel 2015. Credit: IHS Jane)
La Turchia è anche il maggior ricettore di rifugiati del conflitto siriano: 2.2 milioni di siriani stazionano in Turchia, mentre oltre 2.5 milioni se li spartiscono Giordania e Libano. È sulla loro pelle che le potenze cercano di definire le loro sfere di influenza e gli Stati modellano e cambiano le loro alleanze.
In tutto questo, la guerra sul campo si è drammaticamente allargata e i suoi confini si sono fatti più labili: il sedicente Stato islamico controlla anche una parte dell’Iraq e colpisce nel centro di Parigi.
I raid aerei della coalizione internazionale hanno più l’intento di definire equilibri politici che ottenere vittorie militari. E come il passato ha dimostrato, le bombe non sono lo strumento migliore per ottenere fini squisitamente politici.
I turchi sono sempre più alle corde nella loro politica anti-curda, per cui anche l’Isis è funzionale ai loro scopi politici, e non si fanno scrupoli a mettere un piede in Iraq stanziando truppe pesanti a Mosul, o ad abbattere gli aerei russi che minacciano le forniture clandestine del petrolio di Al Baghdadi.
Putin scorge in questo un’opportunità di evidenziare le crepe nella Nato e l’ambiguità degli Stati Uniti, e guadagnare consensi interni e in Europa su una politica più morbida nei confronti della Russia.
D’altra parte, i paesi del Golfo vedono come fumo negli occhi l’apertura USA all’Iran, che dirotterebbe investimenti petroliferi e rafforzerebbe lo storico nemico sciita, per cui anche per loro il sedicente Stato islamico è un utile strumento politico.
E gli Stati Uniti, che sulla carta non avrebbero alcun interesse a che l’Isis rimanga in sella, non vogliono permettere che il filo-russo Assad si riassesti alla guida della Siria: dopotutto l’esistenza del sedicente Stato islamico in Siria serve anche a tenere aperta la porta ad una soluzione negoziata che vada oltre Assad, assolvendo anche a un loro interesse politico.
Gli Stati Uniti sembrano oggi quelli messi maggiormente nell’angolo dal conflitto siriano. La Nato soffre di una forte crisi di credibilità, apparendo oggi soprattutto come uno strumento militare degli obiettivi politici statunitensi (in primis tutelare i loro interessi in Medio Oriente e limitare l’esuberanza russa).
La leadership degli Stati Uniti si va deteriorando perché Washington non sembra in grado di risolvere velocemente il problema costituito dal sedicente Stato islamico.
In questo scenario, i paesi europei assumono il ruolo di comparse, con la Gran Bretagna al traino degli Stati Uniti, la Francia che usa le bombe soprattutto a fini interni, e gli altri che non vogliono assumersi responsabilità nell’area a causa dell’assenza di garanzie o previsioni sugli sviluppi futuri.
Ma il proliferare di eserciti, armi e di uomini disposti ad imbracciarle in Siria si sta rivelando esplosivo anche per gli equilibri dei paesi vicini.
(Una cartina con bombardamenti effettuati dai vari attori internazionali a partire dall’inizio dell’intervento russo in Siria il 30 settembre 2015. Credit: Bbc)
È guerra aperta in Yemen (dove i sauditi combattono contro le milizie sciite filo iraniane Houthi) e nel nord dell’Iraq.
La Libia tenta di uscire da una sanguinosa guerra tra bande islamiste, Isis, governo e golpisti di Tripoli.
L’est della Turchia rischia di precipitare nella guerra civile tra esercito turco e milizie curde.
L’Egitto si trova alle prese con un islamismo sempre più radicale e virulento.
Le migliaia di profughi ai confini della Siria creano catastrofi umanitarie ai confini est dell’Europa o centinaia di morti nel Mediterraneo, alimentando il traffico di esseri umani.
Il perdurare della situazione di caos in Siria non fa che aumentare il rischio di collasso politico, oltre che umanitario, degli Stati vicini.
Molti di questi stravolgimenti sono anche dovuti al fatto che gli obiettivi politici di tanti degli attori citati sono diventati più importanti a causa dei mutamenti economici dirompenti che hanno dovuto subire.
Un esempio lampante è dato dal recente drastico calo del prezzo del petrolio e dalle sue conseguenze nella regione arabica. Il crollo dei prezzi petroliferi ha favorito gli automobilisti europei ma depresso i bilanci dei maggiori paesi produttori. Anni fa l’Arabia Saudita (con l’Opec) era in grado di influenzare i prezzi del greggio regolando la sua produzione. e ottenendo così i propri obiettivi politici.
Oggi i sauditi stanno perdendo il controllo di questa leva petrolifera: gli Stati Uniti, in passato i loro maggiori acquirenti di petrolio, ne sono diventati i maggiori produttori mondiali, mentre i paesi non-Opec come Stati Uniti e Russia (e l’Iran) sono in grado di influenzare il prezzi del greggio in misura tale da vanificare ogni tentativo saudita di regolazione dei prezzi.
Se quindi i sauditi tagliassero la produzione per spingere in alto i prezzi, i paesi non allineati a Riad colmerebbero il loro mancato output petrolifero, i prezzi rimarrebbero “freddi” e i Sauditi perderebbero così parte delle loro entrate.
Riad vuole evitare di perdere quote di mercato e consumare riserve di dollari per finanziare la guerra in Yemen e l’enorme deficit statale. Inoltre, anche se i sauditi riuscissero ad alzare i prezzi, subirebbero nuova concorrenza da parte dei produttori statunitensi che rientrerebbero sul mercato, riducendo le entrate di Riad in un momento in cui il regno di Saud è in disavanzo del 21 per cento.
Cosa c’entra il petrolio con la Siria?
Le risorse energetiche sono l’altra faccia della partita che si gioca sulla pelle dei Siriani. Gli obiettivi politici di quasi tutti gli attori coinvolti sono strettamente legati agli interessi economici dei singoli stati, molti dei quali sono essenzialmente interessi petroliferi.
Quello che sappiamo è che finora nessun intervento esterno ha avuto come obiettivo politico principale quello di restituire spazi di pace alla popolazione siriana.
I bombardamenti della coalizione non possono garantire sicurezza quotidiana alle popolazioni delle zone di conflitto e gli interventi a sostegno delle varie fazioni in campo non fanno che inasprire gli scontri grazie all’uso di nuove armi e alla convinzione di ciascuna parte di dover sfruttarle per ottenere un vantaggio sui rivali.
Le discussioni sull’assetto politico siriano che si sono tenute New York venerdì 18 dicembre, hanno mostrato da un lato l’ammorbidimento degli Stati Uniti sul destino di Assad per tenere insieme la Nato e recuperare credibilità nella lotta all’Isis, dall’altro hanno evidenziato che una volontà di siglare un cessate il fuoco significativo è ben lontana.
E mentre i paesi che alimentano il conflitto discutono sugli assetti futuri dell’area, i rifugiati marciscono nei campi profughi e il 70 per cento di loro mangia solo grazie all’assistenza del Programma alimentare mondiale (Wfp) e delle organizzazioni non governative.
Molti di loro sono nei campi da tre o quattro anni, senza prospettive e con poche speranze di far ritorno a breve nelle loro città distrutte. Chi non ha avuto la fortuna di scappare dal conflitto si trova oggi sotto le bombe in Siria o in balia delle brutalità del sedicente Stato islamico o reclutato dal regime di Assad.
Risolvere la tragedia siriana significa ridefinire gli obiettivi politici delle parti in causa e, in particolare per gli italiani, avere una strategia europea con cui presentarsi di fronte agli attori principali non da comparse ma mettendo sul piatto soluzioni politiche organiche e coraggiose.
Per esempio, una no-fly zone, anche parziale, nel Sud del paese, oggi in mano a ribelli estranei all’Isis, indurrebbe le forze sul campo a cercare soluzioni non militari allo stallo, e farebbe sì che i ribelli organizzino un governo civile che sia un’alternativa al governo del sedicente Stato islamico nell’Est.
L’istituzione di corridoi umanitari allevierebbe il peso del conflitto sui civili, specie se accompagnata dalla fine dei bombardamenti aerei del regime di Bashar al-Assad, delle punizioni collettive e dell’uso dei barili bomba.
Una no-fly zone nel Sud del paese potrebbe essere adottata come un modello in vista della sua estensione anche a Nord, contribuendo a favorire tra tutti gli attori un cambiamento nell’approccio agli obiettivi politici in gioco.
Leggi l'articolo originale su TPI.it