Il Giappone ha confermato che giovedì 24 marzo una flotta di
quattro navi ha fatto ritorno nel paese dopo una spedizione di caccia alla
balena in Antartide durante la quale 333 esemplari dei cetacei in questione sarebbero
stati uccisi.
Il numero non è casuale, ma rappresenta il tetto massimo che
il paese asiatico si è concesso per legge nell’ambito del suo programma di
caccia alla balena che continua a difendere per ragioni scientifiche.
Non tutti
sono però d’accordo, compresa la Corte Internazionale di Giustizia delle
Nazioni Unite, che nel 2014 ha ordinato al Giappone di fermare il programma
dopo aver concluso che la ricerca non poteva giustificare questo numero di
uccisioni.
Il sospetto di molti osservatori è che la caccia alle
balena non abbia alcun legame con la scienza, ma sia soltanto una scusa per far
sì che la carne di balena possa essere venduta presso i ristoranti del paese,
dove è uno dei cibi tradizionali più amati.
Dopo le accuse internazionali al riguardo, il Giappone interruppe
temporaneamente la caccia fino al 2015 e propose un nuovo piano, consistente
nell’uccisione di 4mila balene nel corso di 12 anni.
Il piano non è sembrato
sufficiente alle autorità competenti, ma nonostante questo, il Giappone ha
ripreso la caccia a dicembre dello scorso anno, lasciando che la flotta appena
tornata restasse per quattro mesi in Antartide.
Secondo gli ambientalisti, la definizione di caccia “scientifica”
è un modo per aggirare le norme internazionali, vista la possibilità di un
esenzione dal divieto di caccia a scopi commerciali del 1986 quando vi siano
ragioni di ricerca scientifica dietro alle spedizioni.
In questo senso, l’Australia sta apertamente contrastando
questa politica, come dichiarato dal ministro dell’Ambiente Greg Hunt.
“Non accettiamo in alcun modo il concetto di uccidere balene per la cosiddetta
ricerca scientifica. Le tecniche di ricerca non letali sono il metodo più
efficace ed efficiente di studiare qualsiasi cetaceo”, ha detto il ministro.