Se in Occidente non mancano i manuali e le liste di
suggerimenti per essere più produttivi sul lavoro, non si può dire che in
Giappone il problema si ponga, visto che ultimamente nel paese asiatico si sente parlare sempre di più di “morte da superlavoro”.
In giapponese il termine usato è karoshi, ed è considerato un risultato inevitabile della locale cultura
del lavoro, notoriamente estenuante e in alcuni casi mortale, che sia per
malattia o per suicidio.
Come riporta il Washington
Post, Kiyotaka Serizawa era un impiegato trentaquattrenne di una società
specializzata in manutenzione di condomini, che un anno fa si è ucciso dopo
essere arrivato, nelle sue ultime settimane di vita, a ritmi che prevedevano 90
ore di lavoro a settimana.
Tutto è iniziato negli anni Settanta, quando i salari erano
relativamente bassi e i dipendenti volevano massimizzare i loro guadagni. L’atteggiamento di ricerca ossessiva della produttività e della dedizione
totale al proprio mestiere è continuato anche durante il boom degli anni Ottanta,
quando il Giappone è diventato la seconda economia mondiale.
Koji Morioka, professore emerito alla Kansai University, che
fa parte di un comitato di esperti attivato dal governo per combattere il fenomeno karoshi, dichiara al Washington Post: “In un ufficio
giapponese, il lavoro straordinario è sempre lì, quasi come se fosse parte dell’orario
di lavoro normale. Nessuno lo impone, ma i lavoratori lo vivono come se fosse
obbligatorio”.
Se dunque la settimana lavorativa di base ammonta a 40 ore,
molti lavoratori restano diverse ore in più a disposizione e chiedono di non
conteggiare quel tempo come straordinari, per paura di una valutazione negativa
da parte dei superiori.
In questa situazione, la “morte da superlavoro” è stata
quindi ufficialmente riconosciuta (sia per infarto, che per ictus o suicidio),
e il ministero del Lavoro ha diffuso dati secondo cui solo l’anno scorso ben 189 morti sono state
classificate in questo modo, anche se si crede che possano essere
molte di più.
Una volta che una morte viene classificata come dovuta al karoshi, la famiglia della vittima ha
diritto automaticamente a un sistema di benefici.
Inoltre, il governo un anno fa ha passato una legge volta a fissare
degli obiettivi specifici, come la riduzione della percentuale di dipendenti
che lavorano per più di 60 ore a settimana al 5 per cento entro il 2020.
La maggior parte dei lavoratori giapponesi ha diritto a
venti giorni di ferie l’anno, ma spesso non ne prendono nemmeno la metà, a
causa di una cultura in cui le ferie sono viste come un segno di rallentamento e
di mancanza di impegno nel lavoro.
Il governo spera quindi di invogliare i lavoratori a prendere
almeno il 70 per cento di quanto gli è dovuto.
“È impossibile liberarsi soltanto del karoshi“, sostiene Kenichi Kuroda,
professore della Meiji University di Tokyo specializzato nella cultura del
lavoro. “Abbiamo bisogno di cambiare la cultura degli straordinari e creare tempo
libero per la famiglia e gli hobby. Le lunghe ore di lavoro sono la radice di
ogni male in Giappone. Le persone sono così impegnate che non hanno nemmeno il
tempo di lamentarsi”.
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